Al paradiso delle donne
Deduzione e induzione. Osservo una coppia in un grande magazzino. Lei ispeziona gli scaffali con puntiglio, con esasperante e cerimoniale lentezza. Prende gli oggetti, li guarda, li riguarda, li ripone sugli scaffali. Si allontana, ritorna. Li riprende quasi con lo scopo di sorprenderli, e li riguarda ancora di sotto, di sopra, di lato. Li ripone. Lentissimamente. Pensierosa. Guardo lui: ammaestrato forse da lunghi anni da queste scene ha la pazienza fredda delle statue dei santi, con qualche moto di antica frizione, sembra. «Ma stai cercando qualcosa di preciso?», le chiede con il tono più neutro possibile. «No», replica lei calma, quasi assorta, e quindi aggiunge la verità per lui sconvolgente: «Sto vedendo se mi serve qualcosa». Lui avverte la propria logica aristotelica andare in frantumi, come quelle zucche colpite da lontano dai cow boy negli esercizi di tiro nel cinema western d’antan. Perché sì, la verità è proprio quella. Sconvolgente: lei vede gli oggetti, e gli oggetti le parlano. Sono gli oggetti a indicare ciò di cui lei ha bisogno, quel bisogno che nella quotidianità qualche volta ha fatto capolino e che lei ha momentaneamente archiviato in attesa di adeguata soddisfazione. Per questo li passa in rassegna, li escute. Perché cerca suggerimenti, rammemorazioni, evocazioni. Da loro: dagli oggetti.
Lui probabilmente, parte dall’idea, ossia da una lista, che funziona come le categorie kantiane o aristoteliche e attraverso la quale processa schematicamente la realtà e l’acquisto, e da quella, per deduzione, arriva agli oggetti che ritiene dopotutto un inerte das Ding hegeliano, qualcosa di non degno di attenzione dialettica per la vita superiore dello spirito. Lei invece sa che in quella lista, in quelle categorie, tutto il mondo non ci può stare, come nella valigia di Julio Iglesias (“se mi lasci non vale, in quella valigia tutto il nostro passato non ci può stare”). Lei parte dagli oggetti, e per induzione arriva all’idea. Lui procede al contrario: quella di lui è la via all’ingiù, quella di lei la via all’insù. Anodos e proodos per il giubilo di Platone. Si incontreranno mai?, mi chiedo.
Seguo la coppia fino alla cassa. Lei ha una sorta di beffardo Insight finale, da psicologia della Gestalt: tira fuori all’improvviso, dalla borsa di Mary Poppins, un sacchetto biodegradabile. Per evitarne l’accumulo a casa probabilmente, e per dargli una seconda o terza vita finché defunge per consunzione spontanea, e solo allora lo estrometterà, sicuramente a malincuore, dai confini del proprio Io. Perché lei agli oggetti ci tiene: a tutti gli oggetti e non se ne libererà mai.
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Au Bon Marché. Ecco, questa scena, su cui ho filosofeggiato alla buona, non era possibile prima dell’invenzione dei grandi magazzini, ossia dell’esposizione in serie delle merci in un unico ambiente. L’accesso alle merci era diretto e senza mediazione di commessi, se non per il consiglio per l’acquisto; un tempo il personale servente seguiva l’acquirente con gli acquisti per tutti i piani dello store fino alla cassa come si vede in qualche vecchio film. I prezzi erano uguali per tutti, indicati con un cartellino, mentre prima non esposti, liberi, e negoziati secondo il rango degli acquirenti.
I grandi magazzini nacquero a metà Ottocento a Parigi, nel 1852 per l’intuizione di Aristide Boucicaut che da una bancarella passò per primo agli spazi della grande distribuzione con un magazzino che si chiamava con linguaggio-oggetto quasi Au Bon Marché. Ancor prima c’erano stati i Passages di cui scrive Walter Benjamin: solo che qui erano una serie di botteghe varie sotto volte coperte di vetrate, di cui a Milano è esempio la Galleria Vittorio Emanuele o quella di via Meravigli. Celebri il Passage du Ponceau, du Caire, du Panorama. In uno di questi Passage, quello di Choiseul, Louis Férdinand Céline fu commesso di bottega
L’avvento dei grandi magazzini catturò l’attenzione di Émile Zola che in uno di essi ambientò Au bonheur de dames, da cui è stato liberamente tratto il film tv, una volta detto “sceneggiato” che è stato mandato in onda qualche tempo fa
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Fluctuatio animi e gonne cerchiate e imbottite. C’è un momento quel momento in cui la donna, come la regina della schacchiera “muove” ed è il momento dell’acquisto dove entrano in gioco tutte le terminazioni nervose della donna: l’ampio spettro della sua personalità intima e sociale, la mamma, la moglie, la casalinga, la donna emancipata e libera, l’acquirente compulsiva (come Emma Bovary) semplicemente la donna. È dal suo desiderio che prende le mosse la produzione industriale destinata alla casa, al bambino, al tempo libero.
Solo il desiderio femminile libero e liberato della donna può infiammare il capitalismo: in quelle culture in cui la donna è subordinata e relegata in spazi domestici, non v’è sviluppo. È dal desiderio femminile che promana la forza produttiva dell’economia di mercato, non certo dalla Riforma protestante, assicurava il paradossale pensatore anglo-olandese Bernard de Mandeville, che scriveva nella sua Favola delle Api: «Io sono stato oppositore del papismo come lo sono stati Lutero e Calvino o la stessa regina Elisabetta ma nutro profondi dubbi che la Riforma sia stata più utile a far fiorire i regni e gli Stati che l'hanno abbracciata della ridicola e capricciosa invenzione delle gonne cerchiate e imbottite».
E infine, è la donna più di ogni altro soggetto sensibile occidentale che sa comprendere come dice il Poeta le langage des fleurs et des choses muettes, il linguaggio dei fiori e delle cose mute.
© Alfio Squillaci