Appunti disordinati di viaggio - Il dono è un sacrificio o un servizio?

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Pochi giorni fa ho ricevuto un SMS dalla delegazione AVIS della mia cittadina. Di tanto in tanto può accadere che ci sia carenza di sangue e che la sede locale invii messaggi accorati ai donatori stabili affinché si presentino per incrementare le scorte. Solitamente si tratta di un problema stagionale legato all'indisponibilità delle persone che partono per le vacanze, estive o invernali che siano. In questi difficili tempi di pandemia, vincolati da limitazioni che vanno e vengono e rompono le routine, le abitudini e in parte anche i doveri, l'emergenza è diventata continua e le difficoltà di certi momenti - che pure sono in certi casi valide giustificazioni - sono lentamente diventate pure occasioni per rinunciare. Discutevo di questo atteggiamento con il presidente della sezione alla quale sono iscritto e mi sono trovato a riflettere sul significato stesso dell'espressione "donare il sangue". Perché si tratta esattamente di questo: un dono. "Un dono non è un obbligo", mi spiegava convinto. Io non sono del tutto d'accordo; tutto del mio modo di essere, della mia cultura e del poco sapere che mi è rimasto in testa mi dice che il dono sociale è un dovere (che non è necessariamente un obbligo ma neanche una concessione per grazia).

Che cos'è il "dono"? Curiosamente, non è per tutte le culture la stessa cosa.

Quando viaggi molto e ti confronti con culture diverse, sei costretto dai fatti e dalle persone a valutare quella del tuo paese da più angoli e diverse prospettiva. Il più delle volte lo si fa in modo selettivo e differenziale, molto spesso con spirito critico ("Ah, che paese civile questo... non come il mio!"), quasi mai in modo davvero distaccato e onesto.

Diamo per scontato che il Paese in cui viviamo e che viviamo sia un fenomeno nell'hic et nunc della storia, capitato così com'è per caso e improvvisamente per colpa di qualcuno al quale addossare la responsabilità di tutto. Ma il Paese è figlio di un processo di evoluzione culturale millenario, un quadro stratificato in sovrapposizioni di culture e di modelli di società, di diritto, di commercio, di fede, di ricerca e di pensiero. La lingua italiana, così articolata e complessa rispetto a molte altre lingue ben più diffuse, così ricca di sfumature e di toni è la somma tradotta in suoni di un'infinità di significati che sono realtà materiale, azione e pensiero radicato in noi. Una lingua che ha più parole per descrivere le sottili differenze di una stessa cosa già tradisce la multi-prospettiva, la natura poliedrica e adattiva del popolo che la incarna e che ha imparato a vivere in questa "unione di distinguo". Logica vorrebbe che questo popolo fosse l'archetipo di una società composita e pacificamente convivente.

Eppure, ultimamente, l'evidenza che la società che siamo diventati, bellicosa e inconcludente, distruttiva e ammantata di esterofilia travestita del più bieco nazionalismo populista, mi pare rappresentare il prodotto della totale negazione delle nostre origini culturali ed è così stridente da risultare preponderante rispetto a qualsiasi tentativo di rimanere ancorati al modello di società che abbiamo costruito in due millenni di contaminazioni, conflitti e faticose sintesi. Una violenza che usiamo contro noi stessi in nome di un mondo completamente alieno al nostro modo di essere e di sentire. Con troppa sufficienza chi non vuole approfondire liquida la questione con "i tempi cambiano". Potrei essere d'accordo, su scala quantomeno secolare ma non certo su scala mensile!

Per capire chi siamo, a volte basta fermarsi a pensare al significato di alcune parole e perché noi usiamo proprio quelle e non altre. Per quanto acciaccati e litigiosi è indubbio che noi italiani siamo una comunità. La radice di "comunità" è il latino "munus", parola splendida che trasuda la natura stessa del nostro popolo che nella sua storia frammentata e divisa ha trovato con costanza gli elementi dell'unità. Munus significa "dono", in particolare il dono funebre o quello votivo cioè per definizione una gratuità che non ricerca o presuppone uno scambio. Nella nostra cultura il dono è per definizione asimmetrico, crea uguaglianza, riequilibra le disparità dotando chi non ha di qualcosa che altri hanno. Non è mercantile: è sociale.

Al tempo stesso munus significa anche "dovere"; che cos'è una donazione senza ritorno se non un servizio? Per i latini il "dovere" inteso come carica o funzione pubblica è un servizio, un dono di competenze, tempo e risorse personali agli altri. Siamo una comunità e una comunità è un "com-munis", un insieme di persone che si obbligano al prestare servizio insieme, si vincolano al dono reciproco. Siamo una comunità perché nella capacità comune di dare ciò che abbiamo a chi non ha riequilibriamo le disparità e ci supportiamo vicendevolmente.

Da venti anni (e forse più ma non ne ho memoria, distratto com'ero da ragazzo!), con una rapida accelerazione negli ultimi due o tre, stiamo violentando questa profonda radice culturale che ha fatto di parole vive e materiali il nostro modo di vivere e pensare, per operare al contrario e dare alla vita l'indirizzo definito da parole che appartengono a altre culture.

Ci siamo appiattiti su una idea di non-società, di non-comunità che se è vero che non può esistere distaccata dai mercati e dal consumo, ha il demerito di averlo trasformato nel fine stesso e di aver fatto propria una cultura mercantile e pragmatica che ci arricchisce materialmente impoverendoci inesorabilmente dal punto di vista sociale e culturale, amplificando le disparità sociali. Il pragmatismo e il mercantilismo hanno fatto degli USA il gigante per molto tempo tecnicamente e commercialmente egemone; quando ero un ragazzino ricordo che eravamo orgogliosi della nostra diversità; vantavamo e opponevamo una maggiore consapevolezza culturale e storica alla cultura del "tutto e subito" ma oggi questi valori paiono essere additati come vestigia del passato, retaggio di un Paese che non vogliamo più senza sapere che cosa vogliamo al suo posto e soprattutto senza avere neanche le parole per descriverlo. Così ci siamo affidati ai significati che alle parole danno gli altri e li abbiamo assorbiti lentamente, goccia dopo goccia, nel nostro modo di vivere e di pensare.

"Dono" in inglese si dice "gift". Non è un caso che gift in tedesco significhi "veleno".

Nelle pragmatiche "tank culture" anglosassoni, il dono è l'elemento corruttore che non genera profitto e che avvelena la società creando disparità, togliendo a me per dare a te, essendo quindi non un servizio ma un sacrificio.

Davvero vogliamo una società così?

Andate a donare il sangue. Scoprirete che munus è assai meglio di gift.

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