C’è un futuro per l’industria italiana? Sì ma…
In una recente intervista Enrico Moretti, economista all’Università di Berkeley, affrontava il tema del futuro dell’industria manifatturiera con particolare attenzione alla condizione delle PMI.
Da quanto emerge dai suoi studi lo stato di salute della Manifattura è roseo ma con i dovuti distinguo: in tutti i Paesi sviluppati l’occupazione generale del settore è in calo da trent’anni e continuerà ad esserlo, proprio come accadde un secolo fa all’agricoltura.
Per i prossimi anni, d’altro canto, nei Paesi di riferimento -USA e Germania su tutti-, per l’advanced manufacturing si prevede una costante crescita dell’occupazione ad elevata professionalità; una crescita strettamente legata a ricerca e sviluppo e investimenti che richiedono competenze e dimensioni aziendali adeguate.
Anche secondo una ricerca Cefedop (Centro Europeo per lo Sviluppo e la Formazione), le prospettive occupazionali in Europa per il prossimi cinque anni sono molto diverse in funzione del grado di professionalità:
Mentre per le occupazioni a medio o basso livello di professionalità le opportunità di lavoro saranno legate quasi esclusivamente ad un mercato di sostituzione (con una pesante contrazione per le attività manuali qualificate), per le figure altamente qualificate è prevista un’espansione di circa 8,5 milioni di posti di lavoro rispetto ad oggi.
E in Italia ?
Tutti sappiamo che l’Italia è un Paese ad alta vocazione manifatturiera ma, mentre in altri Stati si investe sul capitale umano per creare le condizioni di sviluppo dell’Industria 4.0, in Italia si continua a credere nella capacità di tenuta delle PMI in particolare in quelle fatte sotto casa da padre, madre e, finite le scuole dell’obbligo, figli.
Come se non bastasse da noi c’è un’eccessiva percentuale di lauree in campi improduttivi dal punto di vista industriale, le aziende continuano a non investire nella formazione e le statistiche mostrano che le imprese italiane ritengono irrilevante il livello di formazione dei propri manager:
In Italia più di un manager su quattro ha la sola licenza media e tre su quattro non sono laureati (pur senza fare distinzione tra lauree ad indirizzo manageriale e non).
Per curiosità e senza alcuna velleità scientifica ho provato ad affiancare i dati di variazione percentuale del PIL tra gli anni 2000 e 2014 e la percentuale di manager laureati:
Non sarebbe corretto affermare che la mancanza di crescita in Italia dipenda esclusivamente dal tasso di scolarizzazione dei manager italiani ma differenze così evidenti unite alla conoscenza della tradizione e della cultura manifatturiera italiana devono far pensare.
La conclusione
Le analisi suggeriscono che il potenziale di crescita e occupazione dell’industria c’è e non è certo marginale ma, come afferma Moretti, è “un’occupazione diversa di quella che ha in mente la gente quando pensa alla fabbrica. È un’occupazione che favorisce chi ha una laurea piuttosto che chi ha la licenza media.”
Da questo punto di vista il tessuto imprenditoriale italiano fondato su PMI, spesso a gestione familiare e con scarso contenuto innovativo, basate fondamentalmente sulla vendita di mano d’opera, con scarsissima attitudine e capacità d’investimento in ricerca e sviluppo è destinato a trovarsi sempre più in difficoltà e senza vie d’uscita.
Questo concetto potrà anche scontrarsi con l’italico spirito di iniziativa e con il nostro spiccato individualismo ma le imprese più grandi hanno maggiori capacità di investimento in ricerca e sviluppo e accesso alle professionalità più elevate per potersi affacciare sul mercato globale, quindi hanno più probabilità di sopravvivere e avere successo in un mondo in cui prodotti e servizi devono essere in costante evoluzione. Questo vale anche per i settori più tradizionali in cui, anche se l’innovazione di prodotto può essere più lenta, la competizione si sposta sui servizi o sul valore immateriale del prodotto e anche in questo caso la professionalità è il fulcro su cui creare competitività.
Il risultato di ciò che sta accadendo in questi ultimi anni, che qualcuno chiama “CRISI” e qualcun altro un po’ retoricamente definisce “OPPORTUNITÀ”, sarà una spietata selezione naturale del mondo delle imprese: chi non saprà adattarsi a questa nuova realtà è destinato all’estinzione senza possibilità di appello.
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8 anniRingrazio tutti per i contributi e provo a rilanciare la discussione con i pensieri che mi sono venuti in mente. Premetto che il campo della finanza non è il campo, in quanto mi occupo di formazione e apprendimento cercando di stimolare nove domande e pensieri laterali. Quindi magari in questo caso sto dicendo una schiocchezza. Quello che mi colpisce, in generale, è che da un lato si considera sempre più importante la conoscenza, la formazione la professionalità, diciamo "nuovi occhi per vedere cose nuove". Ed è un investimento che non richiede grandi risorse economiche. Dall'altro però si dice che solo le grandi aziende possono fare quei grossi investimenti in ricerca e sviluppo necessari per creare innovazione (con molti zeri che i piccoli non possono permettersi). Ripeto non è il mio campo ma mi pare che ci sia qualcosa che non quadra. Da un lato l'investimento immateriale è poco costoso, dall'altro si dice che sono necessarie grandi risorse per investimente soprattutto materiali (logistica, infrastrutture, tecnologia ecc). A questo aggiungo il punto di vista di Francesco Zanotti che analizzando il caso di Esino Lario scrive: " Il Congresso mondiale di Wikipedia avverrà nel Paesino di Esino Lario sul lago di Como. Mi si conceda un parallelo: Barbiana anni ’50, paesino “sfigato” della Toscana che diventa la capitale educativa di quegli anni. La lezione? Non sono necessarie risorse fisiche, ma risorse cognitive per cambiare il mondo. Sia Esino che Barbiana non hanno nulla di quello che oggi viene giudicato indispensabile: infrastrutture (strade reali e virtuali, strutture alberghiere etc.) e risorse finanziarie. Hanno e hanno avuto conoscenza e passione" http://balbettantipoietici.blogspot.it/2016/05/wikipedia-e-esino-lario.html . Caso estremo? Forse. però mi pare un bel punto di vista.
VP Supply Chain & Operations at DEDAR MILANO
8 anniGrazie per lo spunto, Stefano. Partiamo dal presupposto che quando si generalizza si commette sempre un errore da una parte o dall'altra; ciò premesso, è verissimo che esistono PMI che riescono a fare di ricerca e innovazione il proprio punto di forza ma se guardiamo alla grande massa delle imprese non possiamo nasconderci che fare ricerca e sviluppo a livelli crescenti costi molto e spesso si tratta di costi non commisurati al volume d'affari delle aziende: ad esempio il costo di sviluppo di un nuovo farmaco non è altissimo e spesso insostenibile per un'azienda che fattura pochi milioni di euro.
Istruttore Polizia Locale di Roma Capitale
8 anniNon fate mai parlare di economia gli economisti: sbagliano quasi sempre.
CTO Insights&Data at Capgemini
8 anniNon potrei essere piu' d'accordo. Per troppi anni ci siamo raccontati che "piccolo e' bello", mentre invece il nanismo delle aziende italiane ne impedisce la crescita e gli investimenti in logistica, digitalizzazione e sviluppo. Inoltre, la cultura della compiacenza e non della competenza impedisce quasi regolarmente ogni idea di "nuovo" e di sfida allo status quo. Non vedo, ahime', tracce di inversione di rotta.
Politiche del lavoro e formazione per disoccupati, occupati, imprese.
8 anniCaro Federico Gambarini, mi ritrovo appieno su tante cose che dici. Ho solo un dubbio che ti propongo per stimolare la riflessione. Mi piace molto la descrizione che fai delle PMI e mi pare perfetta. Invece non so se sia davvero fondamentale la dimensione: “le imprese più grandi hanno maggiori capacità di investimento in ricerca e sviluppo e accesso alle professionalità più elevate per potersi affacciare sul mercato globale, quindi hanno più probabilità di sopravvivere e avere successo in un mondo in cui prodotti e servizi devono essere in costante evoluzione”. Vedo che anche Domenico Carbone la pensa così. Non so. La continua evoluzione e la necessità di puntare sui servizi o sul valore immateriale del prodotto e sulla professionalità è il fulcro su cui creare valore aggiunto e distintività (traduco così la parola competitività). Ebbene questo mi pare un problema trasversale e non quanto conti la dimensione. I classici esempi di grandi aziende fallite come la Kodak, Blockbuster o Nokia sono lì a dimostrarcelo. E se tiriamo in ballo la teoria del’evoluzione sono i piccoli ad adattarsi meglio ai cambiamenti. E per quello che posso vedere nella mia esperienza vedo piccoli artigiani all’avanguardia, come piccole medie aziende con successi planetari. Anzi, la rete permette anche a piccoli produttori di essere visibili sul mondo intero molto più che in passato e quindi mi pare che la dimensione non sia un fattore così importante. Ripeto, è vero che le pmi spesso a gestione familiare spesso hanno scarsissima attitudine e capacità d’investimento in ricerca e sviluppo e sono destinate a trovarsi sempre più in difficoltà. Ma non penso che la questione sia la dimensione. Penso che sia la capacità di visione. Non è vero che a piccole dimensioni corrispondono piccole visioni (per dirla con Domenico Carbone). Le visioni sono piccole anche in grandi aziende con grandi capitali e viceversa. A me questa divisione tra piccole medie e grandi aziende mi sembra sempre meno significativa (visto che a contare sono sempre di più le risorse immateriali). Che ne pensi?