CHE ARIA RESPIRI IN AZIENDA?
L’atmosfera che viviamo in azienda, come facilmente possiamo intuire, influisce sulle nostre prestazioni.
Ma è possibile esprimere questa influenza in termini quantitativi?
Nel libro Essere Leader (BUR, 2005), gli autori Daniel Goleman, Richard E. Boyatzis e Annie McKee affermano che: «Alla fine di un trimestre, i fattori che concorrono a caratterizzare le aziende più floride sono necessariamente complessi: le nostre analisi suggeriscono tuttavia che l’atmosfera – lo stato d’animo generale dei dipendenti – possa incidere nella misura del 20-30 per cento sulle prestazioni».
E così proseguono: «Se l’atmosfera di un’azienda concorre a determinare le prestazioni, quali sono, a monte, i fattori che a loro volta determinano l’atmosfera? La percezione che i dipendenti hanno del clima aziendale dipende per il 50-70 per cento circa dalle azioni di un’unica persona: il leader. Più di chiunque altro, il capo crea le condizioni che influenzano direttamente, nei singoli individui, la capacità di lavorare al meglio. In poche parole, lo stato emotivo di un leader e le sue azioni agiscono sull’umore dei collaboratori, influenzandone così le prestazioni. L’abilità di un leader nel gestire il proprio stato d’animo e quello altrui non è più quindi una questione privata, ma diventa un fattore essenziale per il successo di un’azienda».
In realtà, in mancanza di autoresponsabilizzazione nella gestione dei propri stati emotivi, le conseguenze (positive o negative) possono dilatarsi fino a coinvolgere la sfera privata, in primis quella relazionale, del lavoratore.
Le emozioni sono “contagiose”. Perché accade?
Gli autori sopracitati ci vengono nuovamente in soccorso: «Il motivo per cui l’atteggiamento di un leader – non soltanto ciò che fa, ma come lo fa – ha una così grande importanza risiede nell’architettura stessa del cervello umano: in altre parole, in quella che gli scienziati hanno cominciato a definire “la natura a circuito aperto” del sistema limbico, la sede dei nostri centri emozionali. Un sistema a circuito chiuso, come quello circolatorio, è autoregolato; ciò che accade nel sistema circolatorio di chi ci sta accanto non ha quindi il benché minimo impatto sul nostro. La regolamentazione di un sistema limbico aperto, invece, dipende in larga misura da influssi esterni. In altre parole, la nostra stabilità emotiva dipende dalle nostre relazioni con gli altri. Dal punto di vista evolutivo, il sistema limbico a circuito aperto ha rappresentato un tratto vincente, perché attiva i meccanismi di mutuo soccorso emozionale che spingono, per esempio, una madre a tranquillizzare il proprio neonato che piange o la sentinella di un gruppo di primati a lanciare l’allarme non appena percepisca una minaccia. A dispetto delle apparenze, il principio del circuito aperto conserva la propria validità anche nella nostra civiltà avanzata».
Ed entrando più nel dettaglio in relazione alla leadership: «La continua interazione dei circuiti limbici aperti tra i membri di un gruppo crea una sorta di mix emozionale a cui ognuno aggiunge il proprio aroma. Ma è sempre il leader a dare il tocco finale. Perché? Il motivo sta in quella che è una realtà immutabile del mondo del lavoro: gli occhi di tutti sono puntati sul capo. Il vertice rappresenta una fonte costante di spunti emotivi per la base. Anche quando il capo non è molto “visibile” – come nel caso del direttore generale che lavora ai piani alti dietro a porte chiuse – con il suo atteggiamento egli influenza comunque lo stato d’animo dei collaboratori più diretti, innescando così un “effetto domino” che si propaga riverberandosi sul clima emotivo di tutta l’azienda».
A partire da queste analisi mi preme mettere in luce anche un altro punto. Sul 20-30 per cento dell’incidenza dell’atmosfera aziendale sulle prestazioni si aprono più capitoli: uno quantitativo (quantità del lavoro svolto), uno qualitativo (qualità del lavoro svolto) e anche uno in termini di impiego delle proprie risorse intellettive.
In presenza di sollecitazioni positive o negative del Quoziente Emotivo (QE) del singolo e dell’intero gruppo, varierà sensibilmente anche il contributo in termini di QI.
Quest’ultimo è un dato particolarmente interessante, che contribuisce a incrinare il paradigma relativo alla supremazia del QI e del bagaglio conoscitivo in sé e per sé.
Da queste riflessioni si deduce inoltre che – in caso di atmosfera “negativa” – per recuperare il gap di prestazione vengono talvolta impiegate nuove risorse, sostenendo i relativi aggravii in termini di costi, quando, intervenendo invece su fattori interni all’azienda, non ce ne sarebbe alcun bisogno.
Un elevato turn-over dei dipendenti è un altro punto di attenzione da esaminare anche – se non primariamente – in termini di dinamiche emotive d’ufficio e/o d’azienda.
Abbiamo rilevato quindi l’esistenza di “contagi emotivi”, analizzati “dall’alto verso il basso”, ma questo non deve ingenerare un senso di impotenza, mancanza di controllo e/o deresponsabilizzazione per chi si trova alla base delle gerarchie aziendali.
Assumendo il controllo del proprio stato emotivo è possibile migliorare la qualità dalla propria esperienza lavorativa e della propria vita.
Lo si può fare governando consapevolmente la propria permeabilità nei confronti delle influenze esterne, allenando la propria resilienza, adottando un self-talk positivo, canalizzando le proprie emozioni in senso costruttivo (l’esercizio fisico, per esempio, può rappresentare un’ottima opportunità per liberarsi delle emozioni negative), e un supporto può essere offerto anche dalle pratiche meditative.
È inoltre possibile, in presenza di un contagio emotivo “negativo”, replicare proattivamente con un “controcontagio positivo”, che potrebbe rivelarsi piuttosto efficace.
Gli autori rilevano infatti che: «Le emozioni possono propagarsi come virus, ma non tutte si diffondono con la stessa facilità. Uno studio condotto alla School of Management della Yale University ha riscontrato che, all’interno dei gruppi di lavoro, l’allegria e la cordialità hanno una notevole capacità di diffusione, mentre l’irritabilità è meno contagiosa e la depressione tende a non diffondersi affatto. La maggiore propagazione degli stati d’animo positivi ha implicazioni dirette sui risultati professionali. Gli stati d’animo – sempre secondo la ricerca di Yale – possono influenzare l’efficacia del nostro lavoro: un atteggiamento ottimista favorisce la collaborazione e la correttezza dei rapporti, nonché la qualità delle prestazioni».
In altre parole, i collaboratori possono creare consapevolmente e (auspichiamo) collegialmente un’atmosfera più positiva, a loro stesso beneficio, e anche a quello del capo.
Marco Machiorletti