Come essere licenziato da un lavoro che ami fare

Come essere licenziato da un lavoro che ami fare

Più di 15 anni fa ho partecipato a un corso di formazione tenuto da una persona per la quale nutro moltissima stima. Sto parlando del settore alberghiero e quell’esperienza formativa e lavorativa (stagionale) è rimasta un punto di riferimento fisso: la mia idea di professionalità dell'accoglienza affonda le radici in quell’estate di 15 anni fa.

Alla fine della stagione mi mise di fronte a una scelta importante: mi propose di lavorare tutto l’anno nell’albergo. Scelsi di continuare con gli studi iniziati due anni prima.

La vita ci fece incontrare diverse volte, e non solo per lavoro. Ci siamo ispirati a vicenda in momenti cupi. Poi, per un po’ ci siamo persi.

La seconda metà del 2021 è stata particolarmente difficile e l’ultimo mese dell’anno è stato terribilmente buio. In concomitanza con la chiusura della mia partita IVA e la decisione di concludere il progetto RhetoFan ho inviato centinaia di CV in giro e chiesto una mano a chi pensavo potesse darmela per trovare un lavoro.

È stato un momento significativo che mi ha fatto capire diverse cose sul comportamento umano. Non tutti sono quel che dicono e non tutti dicono quello che sono.

Fa parte del gioco, le maschere non sono invenzione di recente data.

Ho 47 anni, sono padre separato di due splendidi juniors, lei 12, lui 4. Il mercato di lavoro non è particolarmente accogliente nei confronti degli ultraquarantenni separati.

In quella giornata grigia di dicembre, la mattina fui scartato come operaio e di pomeriggio fui scelto come rappresentante territoriale di un produttore italiano di caffè. Ero moderatamente sereno, ma il bello doveva ancora arrivare.

Al rientro a casa, dopo il colloquio pomeridiano, ricevetti la telefonata che stava per cambiarmi i giorni a venire e riempirmi l’anima di un’immensa gratitudine.

Si prospettava un ritorno immediato nel settore dell’accoglienza, dopo una parentesi di circa dieci anni, tra l’altro a distanza ravvicinata da casa mia. Non ci credo ai miracoli, ma quella telefonata aveva tutte le sembianze di un miracolo.

Per la stima che nutro nei confronti di questa persona, ora ai vertici aziendali di un importante gruppo operante nel settore della consulenza, per la naturale gratitudine che nasce nei confronti di chi investe completa fiducia nella tua professionalità e per l’elevato senso di responsabilità che un padre può avere mi sono lanciato in questa nuova avventura lavorativa così: con altissima motivazione e con assoluta dedizione.

Ho iniziato a lavorare con la testa e con il cuore come peraltro ho fatto in tutti gli impieghi che ho svolto nella mia carriera lavorativa, in Italia e all’estero. E con tantissimo entusiasmo.

Vedere la luce quando sei sul fondo scoprendo che al fondo non c’è fine è una particolare molla motivazionale in grado di spingerti a dare in forma decuplicata ciò che hai ricevuto. Non tutti lo sanno, in pochissimi lo capiscono.

Dunque: entusiasmo, motivazione, dedizione. Il risultato? Guardalo nella foto: licenziato allo scadere dei 14 giorni, formalmente per non aver superato il periodo di prova. Il che vuol dire tutto e niente.

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A voce, perché, parole testuali, “non andavi bene”.

Lascio da parte l’incapacità di illustrare motivazioni valide, il mancato confronto occhi negli occhi con il diretto responsabile, il continuo balbettio degno di un cartone animato, il viscido operato di chi dovrebbe saper motivare i collaboratori, ma non lo sa.

Tralascio anche le piccolezze umane e professionali che ho visto e udito ma sorvolato nei 14 giorni di lavoro. Come dici, qualche esempio? Ecco: petegolezze nei confronti dei colleghi, comportamento anche linguistico inappropriato nei confronti dei clienti, script verbali totalmente inadatti, confusione di ruoli e procedure, bias cognitivi intollerabili, incapacità di gestione delle emozioni. Che faccio, continuo?

Di coltellate alle spalle ne ho ricevute altre, è inevitabile quando ti avvicini alla soglia dei 50 anni, credo. Il rancore mangia il fegato di molte persone che non esitano poi di pugnalarti. È una metafora, ovvio, ma particolarmente dolorosa. Nel mio caso, in un colpo solo ha colpito tre vite.

Sapete la delusione più grande? Di passare come uno che ha incrinato la fiducia con cui è stato investito. Confido, tuttavia, nell’onestà di pensiero di questa persona che stimo e nei confronti della quale rimango profondamente grato. Ha fatto un miracolo, per uno che ai miracoli non crede.

E sapete la frustrazione più grande? Di aver sperimentato in prima persona come il mix micidiale di mediocrità, incompetenza e supponenza possa sostituire la dedizione, l’entusiasmo e la professionalità in uno dei più bei settori - l'accoglienza -  in cui io abbia mai lavorato.

Sì, un'amarezza senza fine.

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