Conosci te stesso
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Conosci te stesso

L'iscrizione posta nel tempio di Apollo a Delfi è un invito rivolto agli uomini, affinché riconoscano la propria finitezza.

Uno degli effetti positivi della crisi finanziaria globale, giunta in Europa quasi dieci anni fa, è l'aver indotto le imprese a confrontarsi con le proprie possibilità. Gli investimenti si sono fatti sempre più responsabilmente e si è reagito facendo efficienza, lavorando sui processi.

Per quanto tempo la tattica di resistenza, basata sull’efficientare quel che si sa fare, rende sostenibile il posizionamento competitivo delle imprese, laddove i consumi stentano a riprendersi e la durata della crisi lascia che una nuova generazione di consumatori si faccia avanti, rendendo desuete competenze e strumenti che provengono da un tempo passato?

Fino a che punto la concentrazione dei mercati consolidati ha potuto o può rispondere alle promesse di efficienza delle difficili sinergie fra aziende complementari?

Da un confronto nell’ambito del progetto Intrapresæ, in cui Collezione Peggy Guggenheim di Venezia e un gruppo di imprese illuminate collaborano allo scopo di promuovere lo sviluppo di un futuro etico e sostenibile per l’impresa in Italia, nasce l’invito ad analizzare il ruolo dell’innovazione in tempo di trasformazione, non solo digitale.

L'esigenza di progettare lo sviluppo delle imprese rispetto a orizzonti strategici di medio-lungo termine ha trasformato le sfide manageriali. Non si tratta più e solo di condurre le imprese lungo rotte note e attraverso acque agitate, ma di esplorare rotte nuove.

La necessità di dedicare energie all'innovazione con approccio industriale si è trasformata da desiderio in bisogno. È al contempo emersa la domanda di modelli d’innovazione concreti, ripetibili e sostenibili, a fronte di quelli tradizionalmente monolitici della pura Ricerca e Sviluppo.

Come sviluppare nuove proposte progettuali senza sostenere completamente in autonomia il rischio legato all’onere finanziario, alla lunghezza dei cicli di sviluppo nuovi prodotti e ai test di mercato?

La risposta arriva con il modello ‘Open Innovation’, proposto da Henry Chesbrough. Il professore di Berkeley suggerisce, in sostanza, di rendere le aziende porose, condividendo rischi e potenziali oneri associati allo sviluppo di nuove iniziative d’impresa con soggetti esterni alla stessa. Una porosità bidirezionale:

·     Hai delle competenze interne che non hai il tempo e/o le energie per trasformare in valore di mercato? Accetta di recepire una frazione del valore potenziale e lascia che sia un altro soggetto più focalizzato a farlo.

·     Dòtati della capacità di reperire idee innovative al di fuori dei tuoi confini e di quella di realizzare filiere end-to-end interne che siano in grado di trasformarle in prodotti o servizi al cliente finale.

Una proposta di buon senso che sapeva già dei saggi consigli dei nostri nonni, prima ancora che il sopraggiungere della crisi economica la trasformasse in molto più che un’opzione: moltiplica le tue possibilità unendo forze con altri, accetta di condividere i possibili benefici, abbrevia i cicli di sviluppo nuovi prodotti e presentati sul mercato il più presto possibile. Tutto ragionevole. L’esperienza insegna però che le imprese consolidate resistono alla possibilità di condividere competenze con l’esterno e di accogliere competenze diverse, trasformandosi sovente in veri e propri tritacarne di nuove proposte progettuali, anche quando queste palesino un evidente potenziale.

Ciò che rende difficile realizzare concretamente questo modello è proprio quella cultura consolidata su cui si basa l’identità dell’impresa consolidata.

Mettere in discussione la propria identità, maturata lungo un percorso evolutivo lungo e faticoso, è certamente una sfida difficile, che deve partire dalla testa e dal cuore delle imprese.

In tal senso, forse, la sfida manageriale più importante, di questi tempi, sta nel conoscere a fondo il potenziale latente che giace nelle imprese e, in particolare, nelle persone che le costituiscono. E lavorare per moltiplicarlo, trasformandolo e adattandolo ai tempi che cambiano. Ciò richiede un forte commitment dall’alto.

L’adozione di un modello sostenibile quale si propone d’essere l’Open Innovation, che mentre nelle imprese nostrane si tituba e discute corre il rischio di diventare obsoleto e inflazionato, può seriamente costituire strumento concreto di cambiamento ed evoluzione e, in questo senso, configurarsi come leva di sviluppo sostenibile alla diffusione di una cultura d’impresa evoluta all’interno delle aziende. Con ciò assumendo anche una forte connotazione di responsabilità sociale rispetto alle aspettative di tutti gli stakeholder delle imprese.

DP

PS: In figura è riportata una pittura allegorica del 17mo secolo con la scrittura 'NOSCE TE IPSUM'.

Roberto Pezza

Founder at base9.it | Design Thinking | Agile HR | OKR Coach | Innovation Advisor

6 anni

Condivido la necessità di innovazione e l’opportunità dell’approccio di Open Innovation che non banalizza l’aperto di trasformazione manageriale dell’Innovazione. I manager che vogliono fare innovazione devo sempre di più possedere know how sui modelli di business completi e anche su tecnologie per generare valore all’Open Innovation. Segnalo il bell’esempio di ATM azienda di trasporti milanese che nella sua App ha integrato i servizi di due aziende di carsharing per dare valore alla mobilità urbana.

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