CORONAVIRUS IN LOMBARDIA

E’ IN GRADO IL SISTEMA SANITARIO LOMBARDO DI PROTEGGERCI DAL CORONAVIRUS?

La domanda appare legittima. La regione più ricca del paese, che sostiene di possedere il miglior sistema sanitario italiano e uno dei migliori d’Europa, subisce una delle peggiori tragedie sanitarie che la pandemia in corso ha provocato nel mondo: ad oggi, 25 aprile 2020, registriamo 71.969 contagiati, 13.269 morti, ovvero il 18,4% di tasso di letalità, forse il più alto del mondo; sono ancora 34.473 i contagiati attuali dopo due mesi da quando si sono scoperti i primi casi e dopo un mese e mezzo di feroce lock down, dove tutta la popolazione, poco più di 10 milioni di abitanti, è stata intimata di non uscire da casa se non per cercar nutrimento o per prendere una fugace boccata d’aria con la mascherina nei dintorni della propria abitazione. Ai crudi numeri delle statistiche dobbiamo aggiungere le grida di dolore, trasmesse da tutte le televisioni del mondo, degli abitanti di Nembro e Alzano, così come quelli di Castiglione d’Adda, di Codogno o di Crema che piangono i loro morti, spesso non soccorsi in tempo, senza una diagnosi o un tampone, impacchettati in bare anonime e accatastati su camion militari per cercare inceneritori lontani; e poi ancora l’angoscia delle terapie intensive che non bastavano per tutti i malati gravi e la terribile situazione di medici stremati che dovevano decidere chi tentare di salvare e chi invece lasciar morire; ed infine la carneficina nelle case di riposo per anziani, una strage di innocenti che non sapevano difendersi e non sono stati curati adeguatamente nonostante tutti gli sforzi del personale sanitario/assistenziale operante in esse.

Cosa non ha funzionato?

Medici ed infermieri sono stati loro stessi vittime della malattia che hanno affrontato con coraggio e scarsi mezzi: ben l’ 11% dei contagiati sono operatori sanitari! Non si vuole fare processi sommari, anzi chi scrive ritiene che non siano opportune in questo momento in cui la battaglia contro il visus è ancora in corso, indagini giudiziarie che intralcino il lavoro di chi stà ancora lottando; indagini per stabilire colpe, responsabilità, comportamenti in malafede. Molto probabilmente anche i dirigenti politici e sanitari lombardi, travolti dallo tzunami pandemico, hanno cercato di fare il loro meglio in buonafede per affrontare la situazione; ma il loro meglio è sufficiente?

Non si tratta neppure di voler fare dei processi politici: qualunque lombardo, credo, in questo frangente avrebbe desiderato essere un cittadino veneto, regione amministrata dalla stessa parte politica. Il 28 febbraio, una settimana dopo l’esplosione della pandemia nel nord Italia, Lombardia e Veneto erano le regioni con più contagi: 531 in Lombardia e 151 in Veneto. I contagi in Veneto erano il 28,4% dei contagi lombardi. Due mesi dopo circa, il 25 Aprile, i contagi in Veneto sono 17.391, ovvero il 24,2% di quelli lombardi, e quindi il confronto non è molto diverso da quello del 28 di febbraio. I morti in Veneto però sono 1288, meno del 10% di quelli lombardi! Il tasso di letalità è del 7,4% contro il 18,4% della Lombardia: in Lombardia si muore due volte e mezza in più che in Veneto, o anche più, se si vuol dar fede alle analisi fatte sui dati Istat riguardo ai molti morti non classificati covid nei periodi in oggetto in comuni lombardi particolarmente colpiti dalla pandemia. Visto diversamente, il Veneto, con la metà degli abitanti della Lombardia ha un decimo dei morti: comunque la si rigiri i veneti devono ringraziare Zaia e la sanità veneta, mentre i lombardi non sanno che dire!

Tre sono le possibili cause della caporetto della sanità lombarda ai tempi del coronavirus:

-Coloro che hanno preso le principali decisioni in Lombardia nel corso della pandemia non sono stati all’altezza della situazione.

-L’onda virale in Lombardia è stata di gran lunga superiore che in qualunque altro luogo in Italia (e fuori dall’Italia), tale per cui qualunque sistema sanitario e qualunque governo dello stesso ne sarebbero stati inesorabilmente travolti.

-Il sistema sanitario lombardo, diversamente da quello veneto più radicato sul territorio, è disegnato per incentrarsi idealmente attorno alla massimizzazione della soddisfazione di ogni singolo cittadino che si sposta per avere le migliori cure. Esso pare sia stato condotto a creare grandi ospedali iper-specializzati, centri di eccellenza in varie e sofisticate specialità mediche. Di fronte però a una pandemia che si è spalmata su tutto il territorio, aggredendo tutta la popolazione, non è stato in grado di rispondere adeguatamente, non avendo sviluppato un presidio del territorio di qualità sufficiente per garantire la salute PUBBLICA, per garantire un rapporto di cura a una pluralità di persone che non solo si presentano contemporaneamente a chiedere aiuto, ma sono pure infettive!!

A ben guardare, effettivamente lo tzunami lombardo è stato di forza superiore che non quello di qualunque altra regione in Italia. Rispetto al Veneto i contagiati lombardi sono stati circa, da subito, quattro volte tanti; anche se la popolazione e il numero di sanitari lombardi sono circa il doppio dei veneti, possiamo dire che la forza specifica della pandemia lombarda fosse circa il doppio di quella veneta. Tuttavia non possiamo neppure nasconderci errori gravi nella gestione della crisi. La lettera inviata a Gallera il 6 Aprile da parte di tutti i presidenti provinciali della FROMCeO, la federazione regionale dei medici e odontoiatri della Lombardia, li evidenzia puntualmente in 7 punti, che raggruppiamo in 4 aree aggiungendo alcune considerazioni:

1-MANCANZA DI PREPARAZIONE. Il 26 Gennaio 2020 l’Organizzazione mondiale della sanità eleva da rischio medio a rischio alto una pandemia di Covid 19 al di fuori della regione asiatica. Pare che il ministero della salute abbia già da allora indetto una task force sul tema, che abbia partorito scenari anche disastrosi che ci è stato detto che sono stati secretati, ma dal punto di vista pratico l’unica azione intrapresa è stato il blocco dei voli dalla Cina! Presenti le regioni in questa task force, nessuno si è peritato di acquistare materiali di protezione e test di scorta, di essere pronti ad ampliare le terapie intensive e le forze sanitarie del paese, di definire protocolli di azioni di isolamento, se non l’istituzione di zone rosse poi applicate marginalmente, di testare sul territorio la eziologia di quelle “polmoniti anomale” segnalate da più parti in Lombardia, sino all’iniziativa di una giovane anestesista di Codogno che ha così scoperto il cosiddetto caso 1. Ma questa mancanza di preparazione è stata una leggerezza comune alla maggior parte dei paesi occidentali, e non solo del nostro! I dirigenti lombardi non sono stati più negligenti di altri..

2-INCERTEZZE NELLE PRIME FASI DELL’EPIDEMIA. Un certo numero di politici erano più preoccupati di non allarmare inutilmente la popolazione e di non fermare le attività produttive che di fronteggiare l’epidemia. Fontana, in prima linea, si è spaventato prima di altri e ha chiesto abbastanza presto misure più drastiche per la sua regione. Lasciato però solo a decidere dal governo, che ha temporeggiato ancora di più, non ha avuto la determinazione di anticipare alcune misure rivelatesi poi necessarie, come l’istituzione di zone rosse aggiuntive a Nembro e a Alzano, per esempio, anche per non incorrere in una misura osteggiata dagli imprenditori locali e tutto sommato impopolare. La combinazione poi dell’eccesso di domanda di tamponi con l’idea che troppi tamponi avrebbero evidenziato una estensione dell’epidemia ancora maggiore, ha portato i dirigenti lombardi ad adagiarsi su una interpretazione limitata ( e distorta) di quanto detto dall’organizzazione mondiale della sanità, ovvero che i tamponi dovessero essere fatti solo ai sintomatici e non a tutta la popolazione: peccato che i sintomatici, per una sanità lombarda Ospedale-centrica erano solo coloro che si riusciva ad accettare nei pronti soccorsi con sintomi già gravi, e quindi un sottoinsieme non grande degli effettivi contagiati. La consapevolezza che si sarebbero dovuti fare più tamponi è avvenuta lentamente, circa un mese dopo dall’inizio del contagio e la capacità di farli ha dovuto essere adeguata con progressività, diversamente dal Veneto dove tale consapevolezza e tale capacità sono state disponibili ben prima. E qui i limiti della dirigenza lombarda sono evidenti.

3-GESTIONE DEI CONTAGIATI. Non sono stati predisposti sufficienti spazi aggiuntivi e soprattutto anche quelli messi a disposizione non sono stati utilizzati! I contagiati con sintomi lievi sono stati lasciati a casa a contagiare anche chi abitava con loro, e in alcuni casi, all’aggravamento dei sintomi sono stati soccorsi in ritardo. Inoltre i guariti dai sintomi gravi della malattia, ma non ancora negativizzati, per far spazio negli ospedali sovra-affollati, sono stati allocati prevalentemente ancora nelle loro abitazioni o in ricoveri anziani con letti disponibili! Decisione quest’ultima ai limiti della stupidità, vista l’estrema fragilità delle cosiddette RSA, dove il personale non era minimamente preparato ed attrezzato ad affrontare casi di contagio in struttura, come il disastro accaduto anche in moltissime altre residenze per anziani di tutta Europa stà a dimostrare. Su questo punto la dirigenza politico/sanitaria lombarda ha dimostrato tutta la sua inadeguatezza.

4-CARENZE SUL TERRITORIO. I medici di base, relativamente indeboliti numericamente e privi di dispositivi di protezione, senza direttive chiare nelle prime settimane dell’epidemia, spesso essi stessi contagiati, non sono riusciti a far fronte adeguatamente alle moltissime richieste di aiuto. La mancanza di strutture di cura intermedie ha comportato un sovra-affollamento di malati negli ospedali maggiori. Infine, l’estrema frammentarietà dell’offerta sanitaria privata ha fatto sì che molte strutture private si siano trincerate dietro l’incapacità di trattare gli infettivi, e non hanno fornito un supporto proporzionale a quanto hanno dovuto fornire le strutture solo pubbliche, che però a questo punto sono andate vicino al collasso. Questo effetto è stato causato dal modo in cui la sanità lombarda è organizzata, dal suo assetto “privatistico”. La riforma del 2015 che ha ridisegnato la governance della sanità lombarda, con la creazione delle ATS e delle ASST, e che avrebbe dovuto andare nella direzione della territorialità, non ha trovato adeguata realizzazione, per mancanza di fondi, per difficoltà di reperire strutture private che trovassero economico il fornire servizi territoriali, per eccesso di burocrazia che ha fatto sì che la nuova organizzazione appaia più un “poltronificio” che una leadership efficace di realizzazione di servizi sul territorio. In questo caso sia Fontana che Gallera hanno potuto fare poco nell’urgenza, come chiunque nelle loro condizioni, se non cercare di negoziare il meglio possibile il coinvolgimento non obbligatorio delle strutture private. Tuttavia la loro responsabilità in questo caso rimane “politica” e precedente alla pandemia, per non aver modificato ciò che non funzionava della riforma e per non aver fatto progredire concretamente ciò che c’era di valido, dato che sono in carica da ormai due anni.

Per concludere, la carente risposta della sanità lombarda a fronte dell’emergenza coronavirus è stata dovuta in parte a debolezze ed errori della attuale dirigenza e in parte alla inadeguatezza del modello lombardo a fronte di patologie epidemiche; questo sia pure nella comprensione delle condizioni eccezionali in cui la sanità lombarda si sia trovata con il coronavirus. Al fine di sentirci più protetti nella fase due e nelle successive fasi della pandemia ritengo che la direzione della Lombardia debba essere rinforzata con l’innesto di qualche leader capace di gestire la complessità della situazione, eventualmente proveniente dal Veneto, se non si volessero creare incidenti politici ingestibili. Contemporaneamente sarebbe da aprire un cantiere che riveda criticamente il modello della sanità lombarda, che abbiamo visto non essere adatto a gestire pandemie. Un cantiere che suggerisca da un lato qualche provvedimento da prendere urgentemente, e che dall’altro attivi un ripensamento più profondo da realizzare ad epidemia finita.


Francesco Laganà

fondazione Ca'Granda Policlinico di Milano presso chirurgia Maxillo-facciale

4 anni

Mi congratulo per la chiarezza dell’analisi e vorrei prendere spunto da”è disegnato per incentrarsi idealmente attorno alla massimizzazione della soddisfazione di ogni singolo cittadino che si sposta per avere le migliori cure. “. Questo disegno sottende una pericolosa deviazione dallo scopo di un sistema sanitario pubblico che dovrebbe garantire la salute pubblica, quindi della società di individui che costituisce la regione in questo caso. Ma perché la salute pubblica dovrebbe essere garantita? Il fatto di salvaguardare le persone in funzione del loro apporto produttivo alla società, non l’ideale illuminista, ha portato all’istituzione delle casse mutualistiche prima e al sistema sanitario nazionale poi con il preciso intento di salvaguardare la capacità produttiva del sistema. Oggi sempre più spesso la produttività economica è indipendente dal lavoro delle persone e le stesse rischiano di diventare irrilevanti. “Massimizzare la soddisfazione” implica un cambio di funzione del sistema introducendo un rapporto privato tra struttura e singolo cittadino o meglio in ultima analisi tra medico e paziente. L’accesso all’eccellenza non è sempre garantito, ma spesso modulato dal valore economico del cittadino.

Credo che il sistema sanitario cambierà profondamente. Nato, soprattutto in Europa, con un forte profilo sociale, dagli anni 80, in particolare in Lombardia, ha assunto una caratteristica aziendale e privatistica. Oggi il COVID ha dimostrato che basta poco per mettere in ginocchio una nazione, provocando più danni e più morti di una guerra. Immaginatevi non un virus casuale ma un virus voluto da una potenza straniera ( che vuole semplicemente mettere in difficoltà le capacità produttive di una nazione per conquistare quote di mercato) o da dei terroristi. Ebbene, stante questo scenario, la sanità verrà avocata a sé dallo stato e dalla UE e diventerà elemento della sicurezza nazionale. Avremo tre diverse sanità : 1) quella sociale e dei medici di base, che soprattutto in Lombardia andrà risviluppata ( il sistema lombardo e stato il più inefficiente d'Europa e Don Verze andrebbe condannato postumo o spostato di girone nell'inferno dove si trova) 2) una sanità privata, in ambiti precisi e contenuti, 3) una sanità in mano alle strutture della sicurezza nazionale, studiata per garantire la sopravvivenza in caso di attacco batteriologico o virale. Scusate se sono stato lungo ma credo che la questione sia più complessa.

Filippo Genzini

Partner at Ad Mirabilia srl

4 anni

La sensazione, caro Franco, è che chi ha preso le decisioni avesse in mente in prima battuta, di tutto il sistema sanitario regionale, solo gli ospedali e le terapie intensive. La salute dei lombardi e degli operatori medici al di fuori di questi non contavano. E, infatti, tra deceduti in casa e nelle RSA il risultato s'è visto. O, forse, lo scopriremo solo tra qualche mese. Quindi vedo grandi aree di miglioramento sia nel modo in cui è stato progettato in questi anni il nostro sistema sanitario sia nel definire le priorità in un caso di un'emergenza come quello che stiamo vivendo.

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