Cosa significa, davvero, avere una visione

Ho iniziato a fare la copywriter con la stessa motivazione di tanti altri: perché mi piaceva scrivere.

Ho cominciato a fare questo lavoro per ciò che poteva dare a me, dopodiché ho iniziato a fare ciò che si deve fare quando si inizia a vendere un servizio: cercare di farlo sapere.

“Devi avere un piano di comunicazione”, “Ti serve un elemento differenziante”, leggevo e sentivo ripetere. Più studiavo, più trasformavo il mio lavoro dalla pura scrittura alla consulenza, più dicevo queste cose io stessa ai miei clienti, e più mi rendevo conto di quanto fossero vere e vincolanti.

E più aiutavo i miei clienti a formulare risposte e a tradurle in progetti di comunicazione, più faticavo a trovare le mie.

Perché scegliere te e non un tuo competitor?

Potevo inventarmi qualche fandonia e costruirci su una strategia di comunicazione, ma la verità era che non ne avevo la minima idea, a parte l’egoistica risposta: “Perché mi piace scrivere”.

Poco a poco, però, imparando a fare questo mestiere, il focus si è gradualmente spostato. Più i progetti si sono fatti complessi, più ho cominciato a vedere le conseguenze del mio lavoro.

I commenti positivi rivolti ai miei contenuti, i miei clienti che si avvicinavano ai loro obiettivi, le persone soddisfatte di aver trovato le risposte ai propri bisogni.

Persone e aziende si incontravano, scrivendo belle storie, e io ero parte di quelle belle storie.

Io aiutavo a farle accadere.

Questo era quello che amavo di più e che ancora oggi mi fa aprire il pc ogni giorno. (O prendere in mano carta e matita, tra le benevole prese in giro dei clienti molto più digital di me).

È da quel momento, quando il focus si è spostato al di fuori di me, che tutto è diventato più chiaro.

Ho iniziato a trovare tutte quelle risposte, a capire cosa comunicare e come, a vedere nitidamente quale senso dare al mio lavoro.

Per la prima volta mi sono trovata in silenzio non per assenza di una visione, ma per dare priorità alla strutturazione di quella visione.

La stessa che oggi mi sta portando a compiere il passo che, cinque anni fa, avrei giurato non avrei fatto mai: passare dall’attività da freelance a costituire una piccola piccola azienda.

E in tutti questi cambiamenti attraverso i quali sto costruendo due brand e due relativi progetti, più le cose diventano complesse più distinguo chiaramente i passi da mettere uno davanti all’altro.

Quando la motivazione per cui faccio ciò che faccio si è spostata dal mio piacere a ciò che posso portare nel mondo, è diventato più semplice, anche se non meno faticoso, uscire dalla mia comfort zone: non pensare a cosa mi mette a mio agio o a disagio, ma a cosa serve di più alla mia microazienda.

Con il focus sul ruolo che voglio avere per le aziende e per le persone, è diventato più facile difendere il mio lavoro dai collaboratori sbagliati, anche se ottimi amici; a tutelarlo dai progetti inadatti, a prendere decisioni.

A pretendere i giusti clienti e a selezionare le collaborazioni, quelli che possono far crescere i miei progetti, anche attraverso la crescita delle mie competenze.

A distinguere le condizioni ottimali, quelle ideali e a capire quali compromessi accettare, perché e fino a quando.

A capire che promuoversi e vendere non sono cose brutte, ma il modo per farsi trovare da quelle aziende si cui si può avere un impatto positivo.

Quando mi sono trasformata da protagonista a strumento, è diventato facile prendere ogni decisione, anche se difficile e rischiosa, un po’ più a cuor leggero, perché se è quella giusta, allora è semplicemente l’unica cosa da fare.

Questo, per me, è ciò che significa davvero avere una visione.