Couturier mio Couturier!
L’anno che si è appena concluso è decisamente uno di quelli che, per molti motivi, non potremo mai dimenticare.
Anche perché, su tanti libri, sarà associato alla fine di carriere (e vite) spettacolari: La trascinante passione di Ezio Bosso, lo struggente sentimento del maestro Morricone, l’arguta raffinatezza di Franca Valeri, i guizzi ridanciani di Gigi Proietti ... ormai sono Storia.
Ed insieme a questi, la visionarietà futurista di Pierre Cardin che ci ha lasciati, a quasi cento anni, lo scorso 29 dicembre.
Chissà se insieme alle tante lacrime di coccodrillo degli scorsi giorni, il fashion system avrà sparso anche un po' di cenere sul proprio capo per lo spocchioso ostracismo che gli ha riservato negli ultimi decenni?
Eh si. Perché spesso questo è il destino degli outsider, di chi non è allineato.
Ma il ricordo (insieme alla polemica) termina qua. I necrologi non mi interessano e li lascio a chi sa farli meglio di me.
A me interessa lo spunto di riflessione e la persona oltre il personaggio; ma soprattutto sono attratto dalla sincerità di una vocazione, perché ho trovato sempre ridicoli i giri di parole per giustificare il Vuoto.
Bisogna essere rigorosi, quasi ascetici, per ammettere che si è detto quel che si aveva da dire; per non ascoltare le sirene tentatrici e mettersi in viaggio su percorsi nuovi e meno comodi.
Gli anni ‘50 e ‘60 sono stati anni gloriosi per la Moda: un turbinio di inesplorato, di joie de vivre, di nuove forze creative che hanno rivoluzionato i canoni estetici. Di grandi personalità, ognuna con il proprio specifico linguaggio.
Una di queste è stata Pierre Cardin.
La Parigi degli anni 60 fu il suo palcoscenico.
Lui, adorato dalle star della Nouvelle vague, è stato il Mattatore del Futuro, un futuro avveniristico in cui ogni donna e ogni uomo avrebbero potuto essere esploratori dello spazio profondo, dove le differenze di genere e di razza sarebbero state annullate.
Con i suoi pezzi iconici, i pantaloni a sigaretta, gli abiti cut-out, le catsuit in jersey, fino alla maglia con maniche a pipistrello e le giacche senza colletto (solo per citarne alcuni), ha vestito un universo illuminista diretto verso “magnifiche sorti e progressive”.
Negli stessi anni, un quasi coetaneo, appartenente <alla genia (i creatori) dal piglio artistico, dal gusto della ricerca colta, dalla creatività senza fine di lucro> diventava il beniamino del jet-set internazionale dando vita alla sua poesia di tessuti “nobili”: il lamé, la seta, il taffetà e l’ermesino.
Roberto Capucci, nella sua Roma, contempla un orizzonte differente, fatto di grandeur e monumentalismo.
Due origini e due storie diverse: l’immigrato in cerca di riscatto sociale ed economico difronte al ricco figlio della Buona Società. Il dinamismo della Capitale del Mondo “dove tutto succede” contro l’immutabile splendore della Roma barocca.
Tutto in loro è dissimile: dalle scelte di vita allo stile delle loro creazioni.
Laddove Cardin è tutto azione e velocità, l’universo di Capucci è lusso, calma e voluttà.
Nonostante questo, in loro c’è una profonda comunanza.
Innanzitutto entrambi furono pienamente consci e orgogliosi del proprio valore di artisti e della loro personalità.
Entrambi portarono avanti una guerra all’apparenza, per riaffermare la sostanza di una poetica artistica non schiava della tendenza, che <non esiste se non per vendere divise>, ma che crea forme che, prescindendo dal corpo, lo esaltino conferendogli fascino e mistero.
Infatti, nel dialogo che stiamo immaginando, dove l’uno affermava <Je n’ai pas besoin de paraitre, je suis!>, l’altro gli avrebbe risposto <le cose moderne mi piacciono solo se dietro c’è verità. Il resto è bluff>.
Entrambi ebbero uno speciale rapporto con la Settima Arte.
Furono molto amati dalle dive della loro epoca ed entrambi crearono per le scene.
Loro muse furono icone di bellezza e fascino come Jeanne Moreau (che ebbe anche una lunga liaison amorosa con Pierre Cardin) e Silvana Mangano.
Inoltre, per entrambi il Mondo della Moda non è stato abbastanza.
Il primo per bulimia di interessi: Cardin, dopo aver sperimentato nuovi orizzonti (fu il primo ad approcciare i mercati del Far East), nuovi concept (creò il prêt-à-porter) e nuove strategie (portò il licensing alle estreme conseguenze brandizzando praticamente tutto) e aver così costruito un impero economico, rivolse il suo spirito imprenditoriale a diversi altri settori come l’hôtelerie di lusso, la ristorazione e la produzione teatrale.
Al contrario, la lente di Capucci restò (anzi resta, visto che, ormai a 90 anni, continua metodicamente a disegnare tutti i giorni, tutto il giorno) focalizzata ossessivamente sulla fase creativa. Infatti, negli anni 80, quando il mondo della Moda divenne fashion system puntando su una visione consumistica del prodotto “moda”, lui ne prese le distanze e iniziò un percorso solitario che lo avvicinò al mondo dell’Arte, ad un inedito modo di presentare le proprie collezioni, più affine a quello di una personale d’artista, in location alternative e secondo i tempi dettati dalla creatività, che <non ha il timer che scatta ogni sei mesi!>. Per dirla con le sue stesse parole.
Infine, ad entrambi toccò la sorte di godere di benemerenze e riconoscimenti ... ma fuori dal loro “elemento” (se così possiamo chiamarlo!), che li ha relegati al ruolo di padri nobili, ma di fatto li ha considerati altro da sé.
Non vogliamo essere tacciati di sistavameglismo (mi si perdoni il barbaro neologismo), per cui non divagheremo in nostalgici languori ma, di certo, la Moda oggi non è più ideologica, non è più visione.
Forse non è peggiore.
Forse non è migliore.
Ma sicuramente è qualcosa d’altro.