Dall’Italian sounding al ‘Made by Italian’: la nuova sfida per le imprese italiane
E se l'«Italian sounding» fosse un'opportunità per le imprese italiane?
Può sembrare una provocazione, ma spesso non si guarda in profondità di un problema reale per le aziende italiane, ma che dovrebbe essere affrontato diversamente rispetto a quanto accade ora. Perché consumare prodotti che richiamano l'arte culinaria italiana, immaginare di mangiare un piatto di pasta con un sugo di pomodoro che rievoca il sole della Sicilia e una foglia di basilico fresco, magari condita con una pioggia di parmigiano, è un sogno che molti nel mondo coltivano, ma non possono permettersi.
E allora queste fasce della popolazione con un reddito più basso, che non possono acquistare prodotti veramente «Made in Italy», si rivolgono ai surrogati presenti sul mercato a prezzi decisamente inferiori, immaginando di essere su una terrazza di Positano a gustarsi uno dei più tipici prodotti italiani. Come può l'industria alimentare italiana sfruttare questo desiderio? Forse un modo c'è.
Periodicamente vengono prodotte ricerche sui danni che le imitazioni dei prodotti italiani generano alla nostra industria agro-alimentare. L’ultima in ordine di tempo è stata presentata da The European House Ambrosetti e descrive le perdite subite dalle nostre imprese dalla vendita di prodotti esteri che richiamano nel nome, o nella comunicazione del brand, un’origine italiana: l'impatto è stimato in 63 miliardi di euro per il 2023, con la Lombardia, Veneto e Emilia-Romagna che perdono circa 10 miliardi ognuna. Secondo la ricerca, il valore dell’export Food&Beverage italiano sarebbe più che raddoppiato a 126 miliardi di euro, sommati ai 62 miliardi di export agroalimentare di vero Made in Italy. A queste analisi spesso seguono invocazioni per una maggiore tutela dei prodotti di produzione italiana, ma senza andare al fondo del problema e cercare di capire razionalmente come si potrebbe contrastare questi fenomeni con logiche di mercato, molto più efficaci degli interventi meramente regolatori. Serve anche chiarezza su cosa vogliamo o dobbiamo difendere: secondo The European House, al primo posto tra i prodotti più copiati c'è il ragù, che però ha origini francesi. Quale italianità dobbiamo difendere, in questo caso? Sarebbe come dire che chi in Italia prepari un guacamole potrebbe essere accusato di «Mexican sounding»? Dovremmo importare il guacamole dal Messico e basta? E cosa dire dell’hummus, o del kebab?
L’argomento (serissimo) della difesa delle unicità non può mescolarsi a teorie bizzarre come la difesa della pizza o della carbonara. A ben vedere, il successo di un prodotto all’estero non è dato da un più o meno esplicito accostamento a una manifattura italiana, ma dalla qualità del prodotto. Cito il caso degli Stati uniti, il mercato dove l’export italiano ha il più elevato valore aggiunto: molte aziende italiane già producono sul territorio americano. Questo fa sì che la legge americana non consenta più alle imprese di parlare di prodotti Made in Europe o Made in Italy. Come nel caso della Lindt, che è stata costretta a eliminare la dicitura dal proprio marchio «prodotto in Svizzera dal 1845» poiché la società ha uno stabilimento produttivo in America o di Barilla – anch’essa con uno stabilimento produttivo in USA - che da quest’anno, in via preventiva, ha eliminato la dicitura «Numero 1 in Italia» per non incorrere in possibili contestazioni. Altri grandi produttori italiani come Fratelli Beretta, Citterio o filiali di mutinazionali, come Galbani e Ferrero, non citano sulle confezioni riferimenti all’Italia, perché sarebbe fuorviante per il consumatore americano e sarebbero passibili di class action. Ma questi marchi in USA hanno comunque successo, perché puntano sulla qualità dei processi produttivi e dei prodotti e si sono ritagliati una fetta di mercato importante.
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È su questo campo che le aziende italiane devono farsi trovare pronte e investire nel proprio futuro, perché la vera posta in gioco è la difesa delle unicità agricole e industriali degli italiani. Il nostro Paese ha ampi spazi di manovra, anche all'interno di un sistema agroalimentare mondiale che deve puntare a sfamare una popolazione in costante crescita e che arriverà a 9 miliardi di persone tra pochi anni. L'Italia deve far valere i suoi tratti di unicità conosciuti in tutto il mondo, capace di dare vita a profumi e sapori inconfondibili che solo il clima del nostro Paese sa trasmettere ai frutti della terra. L'obiettivo deve essere la creazione di un marchio riconoscibile sui mercati esteri, puntando su una notorietà costruita negli anni, su reti di vendita e una logistica efficiente, che possa portare i prodotti del Made in Italy nel mondo e, soprattutto, in quei Paesi in cui fasce sempre più ampie della popolazione guardano ai consumi di prodotti di qualità come uno «status symbol», un modo per distinguersi dalla massa. Tra i brand del lusso, c'è spazio anche per la ristorazione, con molti prodotti italiani che potrebbero arrivare sulle tavole dei giovani (i più propensi a spendere) dell'Arabia Saudita o di altri Paesi che rappresentano le nuove economie mondiali. La stessa ricerca di The European House – Ambrosetti segnala come in Cina, Giappone e Canada mediamente 7 consumatori su 10 cercano prodotti italiani veri senza considerare gli aspetti legati al prezzo. Le percentuali sono molto alte anche in Paesi come Germania, Australia, Brasile, ma anche in Francia, USA e Regno Unito. Ma l'export del prodotto da solo non basta.
Le aziende italiane devono anche avere il coraggio di portare all'estero il proprio modo di lavorare e di realizzare quei prodotti che tutto il mondo ci invidia. Una soluzione che potrebbe risolvere, almeno in parte, il problema della differenza di prezzo tra i prodotti realmente «Made in Italy» e quelli che li richiamano nel nome e nell'aspetto. Pensiamo al «parmesan». Occorre notare che notare che il Parmigiano Reggiano, il Grana Padano e il pecorino romano, vengono venduti in America (e in diversi altri Paesi) attraverso quote concesse ad alcuni importatori. In questo modo arriva a superare i 16 dollari alla libbra, raggiungendo anche i 20 dollari in alcuni periodi. Sarebbe quindi opportuno studiare l’antitrust americano e capire se non si possa intervenire lungo una filiera che moltiplica il guadagno di alcuni produttori italiani in modo ingiustificato, riducendo la vendibilità dei prodotti e quindi i volumi. Il parmesan ha costi totalmente diversi, dai 2 ai 4 dollari alla libbra, con un evidente risparmio per la popolazione a basso reddito, che sogna di consumare un prodotto di qualità pur sapendo che non è così.
Allora, perché non spostare la competenza e la capacità di fare degli italiani più vicino ai luoghi di consumo, riducendo i costi e aprendosi a nuove fette di mercato? Qualche produttore caseario di Parma, di Mantova o Cremona potrebbe decidere di andare a produrre in Wisconsin (dove il latte è magnifico) e realizzare un grana stagionato nel modo giusto per uscire sul mercato con un prodotto manufatto all’italiana ma che costi intorno ai 10 dollari alla libbra.
È un'opportunità poderosa per il Sistema Italia, per sostituire l'«Italian sounding» con un «Made by Italian», con la qualità e la sicurezza alimentare che solo gli italiani hanno nel mondo.