De Ecosistema Startup Italico
C’è stato un buon mezzo secolo in cui, se si aveva un’idea innovativa o una tecnologia da voler lanciare fondando una nuova impresa, ma non si avevano fondi da investirvi, la scelta quasi obbligata era quella di andare in Silicon Valley, un luogo allora mitologico in cui la vulgata diceva che era possibile trovare gente che staccasse assegni da milioni a fronte di idee geniali. Ovviamente non era così neanche là, la realtà Californiana era molto più complessa di così, ma era sostanzialmente vero che in quella ristretta area intorno a San Francisco ci fosse un terreno favorevole con delle condizioni di contorno fortemente orientate al sostegno delle nuove imprese, ed abbondanza di investitori professionali di diversa natura.
A metà degli anni ’90, uno Stato come Israele, fatto da gente tanto testarda da riuscire a coltivare il deserto, ha infine codificato queste condizioni di contorno e ne ha tentato l’applicazione nel proprio territorio, impegnandosi così a fare per la prima volta quello che in seguito verrà chiamato “ecosystem design”: progettare da zero l’introduzione di un intero comparto economico fatto di diverse tipologie di attori, che collaborino tra di loro seguendo schemi preimpostati, e che abbiano l’obiettivo di valorizzare ricerca e talenti attraverso la creazione di nuove imprese, avendone come ritorno la partecipazione al successo. Israele, nel farlo efficacemente, aveva dimostrato per la prima volta che il meccanismo di sostegno alle startup della Silicon Valley era replicabile, aprendo una corsa che globalmente partì poco dopo.
Anche l’Italia, in quegli anni, nel suo solito modo approssimativo e mediatico, tentò un breve approccio al modello del venture business. Ma lo fece legandolo esclusivamente all’onda delle Internet companies che si spense velocemente - dati i numeri allora limitati dell’accesso alla Rete - e quindi abbandonando rapidamente ogni velleità verso il settore in senso ampio.
Negli altri paesi però, ben più pragmaticamente, non si fermò niente e si spostarono semplicemente gli investimenti puntando verso settori tecnologici più market ready, ma soprattutto si costruì una rete tra tutte queste novelle “provincie” della Silicon Valley, questi luoghi dell’innovazione sparsi per il mondo e denominati Hub, in cui si continuavano ad applicare le metodologie attuando negli ecosistemi stessi dei meccanismi di azione/verifica/apprendimento volti a migliorare le metodologie stesse: la rete degli Hub era connessa ed allineata, ed un efficientamento di metodo che portasse a migliori risultati nel ritorno sugli investimenti, verificato in una città, diventava in tempo reale una metodologia diffusa in tutte le altre. Si era così giunti alla condivisione delle Best Practices: un insieme di ruoli e regole in continua evoluzione e finalizzati ad incrementare il success rate nella creazione di imprese innovative e scalabili.
Mentre tutto ciò si sviluppava, la ultra-conservativa Italia era la sola tra le grandi economie occidentali ad essere del tutto assente dalla scena, ed anzi vi si continuava a stigmatizzare l’ubriacatura che aveva portato alla bolla di Internet, senza mai averne colto il lascito metodologico che aveva invece ben attecchito e che germogliava violentemente altrove, facendo moltiplicare i casi di successo, la numerosità degli attori della filiera, e la dimensione degli investimenti.
Giunti al 2012, mentre già da qualche anno alcuni imprenditori, investitori e manager tentavano autonomamente di avviare anche in Italia delle iniziative volte a diffondere cultura e costruire un ecosistema basato sulle best practices, e mentre un disegno di legge ben allineato a queste veniva condiviso dal Parlamento, un vero e proprio blitz dell’allora Ministro ed ex-banchiere Passera tolse la tematica dalle mani dei parlamentari e la affidò ad una “task force” composta da quelli che secondo lui dovevano essere gli esperti del paese: furono scelti imprenditori che avevano avuto successo durante la bolla del duemila, che purtroppo non avevano esperienza di policy making, e soprattutto che oltre dieci anni dopo rispetto alle proprie esperienze non avevano cognizione di come il venture business si fosse evoluto nel frattempo nel resto del mondo, raggiungendo un grado di complessità, definizioni condivise, metodologie più avanzate, di cui non avevano alcuna esperienza. E soprattutto, gli uffici legislativi tradussero quelle competenze parziali in norme facendone ulteriormente la tara, mediando con richieste provenienti dal mondo accademico e dalle pmi, facendo un gran calderone di tutto.
E’ da quel blitz che nasce la normativa oggi vigente nel settore: con una definizione italiana di cosa sia una startup che fa sorridere tutti i player internazionali, con un accento posto sugli incubatori quando questi altrove sono solo uno strumento – di solito statale od universitario – all’interno di una lunga filiera, con Banca d’Italia che ha ucciso vietandolo quel segmento del casual investing che nel resto del mondo abilita tutto l’early stage, nella totale assenza di indicazioni e definizioni su tutti i ruoli da introdurre nel sistema italiano, e soprattutto nella (in)cultura diffusasi nel paese, basata inizialmente su un modello nuovamente mediatico ed autarchico che ha reinventato tutte le metodologie per non sapere che ve ne fossero da studiare... Beh, in tutto questo scenario negli ultimi tempi fin troppi si sono sentiti in dovere di dare la “colpa” di questa situazione prima alla presunta scarsa qualità degli imprenditori italiani, poi alla scarsità di venture capital, poi alle grandi imprese che non investono nè comprano startup, per concludere semplicisticamente che “in Italia non si può fare”.
Ne avessero detta una giusta.
Ora, a chi oggi si diverte a commentare la scena italiana del venture business, parlandone con la medesima incompetenza (e arroganza) di chi ne ha progettato e divulgato l’avvento, ed a chi guarda a tutto il caos che ne è derivato senza comprendere cosa sia giusto e cosa sbagliato, desidero quindi replicare con alcuni dati di fatto molto semplici da osservare:
- in Italia non siamo come Londra, Israele, Parigi, Berlino e tanti altri luoghi spesso presi ad esempio, innanzitutto perché ci siamo mossi 15/20 anni dopo di loro, e perché la costruzione di un ecosistema maturo in una startup city è un processo ventennale. Anche agendo bene, quindi, ci vorrà un bel po’ di tempo per recuperare, ma nel frattempo qualsiasi confronto tra questi luoghi e noi è semplicemente privo di senso;
- Non c’è luogo al mondo in cui il venture business non stia funzionando perfettamente, a condizione di averlo applicato correttamente e senza tentare commistioni con l’impresa tradizionale, che ha pari dignità ma è cosa nettamente diversa. Chiamare “startup” qualcosa che non lo è, applicare il concetto di ecosistema al territorio nazionale anziché alle città, ignorare le practices internazionali, mettere in piedi premi su premi che non portano a nulla, diffondere modelli consulenziali a pagamento anziché sulla condivisione della creazione di valore, costruire cattedrali nelle paludi e fare talent show televisivi non è introdurre realmente questo settore, è piuttosto un tentativo di reinventare la ruota e nel frattempo dare spazio ad aspiranti stregoni e a furbetti all'italiana;
- Anche da noi qualcuno che applica realmente il venture business c’è, lo fa senza avere le prime pagine di giornale, lo fa “nonostante” un quadro normativo distorsivo, lo fa convinto che – alla fine – gli esempi virtuosi possano vincere sulla mancanza di cultura, lo fa evitando accuratamente le distorsioni all’italiana e gli operatori che ne vivono, lo fa sapendo di essere in forte ritardo sul resto del mondo ma anche che tardi è meglio di mai.
In conclusione, che il venture business è “fuffa” o che non si adatta all’Italia è quanto di più sbagliato ed inconsistente si possa dire, non abbiamo imprenditori peggiori che altrove (anzi), non abbiamo scarsità di ricchezza da incanalare nel venture capital (anzi), non è necessario che le grandi imprese che acquistano siano italiane, ed in Italia si può fare come altrove purché si rimuovano gli ostacoli insiti nella legislazione, nella burocrazia, nei regolamenti, e purché si pongano paletti che orientino verso le best practices, come fatto in tanti altri paesi. Farlo non è seguire una moda passeggera ma - da un pezzo e per molti anni a venire - il solo modo grazie a cui far nascere nuove imprese tecnologiche globali. Le prime aziende al mondo per capitalizzazione sono ormai tutte venture-backed, e questo è un fatto che porta le chiacchiere a zero.
I detrattori del settore sono numerosi, ma il dubbio è che nessuno di loro abbia colto l’eccezionalità della democratizzazione di un’imprenditoria finalmente meritocratica e non più solo esclusiva di chi già detiene capitale. O forse la hanno colta, ma hanno interesse a che questa democratizzazione arrivi il più tardi possibile.
Dire che il venture business “all’italiana” è fuffa, invece, è più che corretto (fatte salve le eccezioni virtuose citate poco sopra). Siamo riusciti a distorcere un settore dandolo in pasto a costruttori di eventi, a consulenti, a quotatori di perdite, ad immobiliaristi ed investitori “a strozzo” convinti di potersi prendere la maggioranza di nuove aziende con quattro spicci. Questo non è venture business, è solo opportunismo cialtronesco misto all'arroganza di chi non vuole aggiornarsi e capire.
Ma d'altra parte noi abbiamo invece un disperato bisogno di introdurre in Italia una vera filiera del Venture Business, abbiamo davvero la necessità di far sviluppare anche qui un ecosistema startup di classe internazionale, abbiamo l’obbligo di non rinunciare di dare al paese la possibilità di superare il suo storico nanismo imprenditoriale, di frenare la fuga di cervelli, di valorizzare l’eccellenza della nostra ricerca; ed è drammaticamente urgente rimettere mano alle policy per copiare finalmente - e senza riformulazioni od interpretazioni - quel che fanno all’estero.
In conclusione, l’ecosistema delle startup ed il vero venture business, in Italia, non li abbiamo ancora visti, se non qualcosa in corso d'opera a Roma e qualche iniziativa sparuta e non sistemica in altri centri minori... ma oggi la loro sostanziale mancanza costituisce un’emergenza nazionale, e non possiamo permetterci di andare avanti senza. Nessuno può più farlo senza avere la certezza di diventare una colonia economica di qualcun altro.
Sbrighiamoci.
GenAI & LLM Strategic BD at Amazon Alexa
7 anniArticolo ben scritto e sviluppato, ma forse manca qualche proposta/critica costruttiva? Alcuni dubbi: forse chi critica lo fa per cercare di dare una svegliata all’Italia? Ovviamente mi aspetto critiche costruttive. Purtroppo nel 2017 essere indietro di 15-20 anni significa tanto, forse troppo, e chi dà per spacciata è finita l’Italia, benché molto pessimista, potrebbe avere ragione. Io credo che ci sia spazio per un sistema startup forte e solido in Italia, ma credo anche che ci siano tante forze che lo stanno tenendo sott’acqua per bloccarlo/non svilupparlo. Spero solo quando emergerà dalle profonde acque della burocrazia, del non merito, e del clientelismo, non sia già affogato...mentre le migliori startup italiane trovano successo all’estero.
Creative Marketing Strategist, Communication Consultant, Mentor at oTTo Collective.
7 anniBello. Io sono osservatrice, non "player", però possibile partner dato il lavoro che faccio e mi son resa conto di questa situazione in modo piuttosto fisico la scorsa settimana al web summit. A parte Piacentini e Banzi non c'era nessun altro nei vari stage a parlare di innovazione nelle varie industrie, nemmeno troppo popolosa la platea delle start-up italiane presenti e in cerca di investitori. Ciò che mi ha colpito di più però è davvero il vuoto cosmico istituzionale, chessò: un banchetto, uno sgabello con la bandiera italiana...qualsiasi cosa! Non si è parlato di Italia manco alle conference dedicate alla moda, solo nell'aerospaziale, giuro. Bah ecco sì, si è parlato di Italia quando sul palco centrale Rosario Dawson ha citato il caso "Asia Argento" e non è stato un bel momento. Onestamente non me lo aspettavo, pensavo, credevo, ero convinta che ci fosse più sostanza, ma forse è vero: non si è pienamente capito che per essere una start up non significa solo internet, ma anche internet ed è diverso e quindi Piacentini, perfettamente a suo agio nel ruolo di consulente che può dire quello che vuole, non ha lesinato nel dire che i politici che devono decidere di queste cose, hanno l'obbligo di saperle. Scusate il papiro.
Design strategist, farmer, apprendista mago. Mi appassionano le storie e i sogni delle persone. Ogni tanto vado nel futuro, il resto del tempo lo passo in campagna a Marchisoro Farm.
7 anniComplimenti per l’oggettività e profondità dell’articolo.
Quantum NRJ srl
7 anniBuonasera, purtroppo mi trovo a condividere per esperienza diretta gran parte del contenuto..... abbiamo aperto nel 2010 (in piena stagnazione) ed ogni volta che abbiamo incontrato "... l'investitore interessato all'azienda innovativa..." c'era sempre il progetto di assalto alla diligenza. Andiamo avanti da soli con le ns. forze ma sicuri della reale concretezza dei ns. lavori.
Autodrone-Care
7 anniAssolutamente, purtroppo, d'accordo.