Debito sovrano
L’Italia ha circa 2300 mld di euro di debito sovrano. Di questo, circa 600 mld sono sottoscritti da soggetti stranieri, circa 370 dalle banche residenti in Italia, e gli altri 1300 circa da soggetti italiani, con capitali, alcuni sostengono, non sempre frutto del risparmio lecito delle famiglie e delle imprese (e quindi con scarsa prevedibilità dei relativi movimenti).
Una prima osservazione è quasi ovvia: gli italiani che hanno Btp ignorano che i loro titoli sono, per una parte importante, una partita di giro tra loro e lo Stato (che son sempre loro): come avere un credito con se stessi, cioè nulla. Ma questo è sempre stato così e su questa ambiguità sono passati i decenni.
Invece, dal mese di maggio 2018, il resto del debito, quello sottoscritto da soggetti non residenti in Italia sta calando a ritmi elevati, pari a circa 35-40 mld al mese, sia per ragioni tecniche, in particolare la fine prossima del QE – Quantitative Easing (cioè gli acquisti di titoli italiani e non solo sui mercati secondari da parte della BCE), sia per la percezione del rischio paese, riflessa poi in spread e tassi più elevati.
Con l’anno nuovo, la fine del QE e il rifinanziamento del debito, che sostanzialmente serve a poter gestire la riserva di liquidità di cui lo Stato ha bisogno per funzionare, lo Stato potrebbe trovarsi nella situazione di dover emettere debito a tassi elevati, e al contempo in presenza di domanda estera carente.
Le banche Italiane, sia per ragioni di conto economico (se gli spread salgono i titoli garantiscono rendimenti anche molto elevati), sia perché verosimilmente sollecitate a sostenere il debito data la debolezza della domanda estera, potrebbero trovarsi a dover sottoscrivere una quota superiore delle nuove emissioni, sottraendo liquidità al sistema, cioè a imprese e famiglie.
Non è una cosa che non sia già accaduta: nel corso del 2011 fu esattamente questo (il cosiddetto Credit Crunch) che mandò in crisi il nostro sistema, e inaugurò la stagione che del “whatever it takes” di Mario Draghi, cioè appunto l’intervento sistematico della BCE per sostenere le emissioni degli Stati, in particolare di quelli in difficoltà e con il maggior valore dei titoli in circolazione, al fine di difendere l’euro. Nelle casse dello Stato, si racconta, era rimasto davvero troppo poco per poter onorare le spese correnti e per interessi.
Ora noi dobbiamo pensare che questa esperienza ha dato un insegnamento all’Europa sul modo di difendere l’euro, almeno sotto il profilo monetario (forse non molto da quello politico), e che a quella situazione non si dovrebbe, in teoria, arrivare senza intervenire prima. Se al contrario dovessimo arrivarci, sarà per volontà politica di qualcuno, e non necessariamente solo di un governo italiano.
Avere un debito denominato in una moneta di conto estero (di fatto l’euro è questo per noi italiani, dato che non ne regoliamo l’emissione) è posizione indubbiamente scomoda, ma non è semplice tenere conto di tutte le implicazioni dello scenario alternativo. Uno Stato che controlla la propria moneta può sempre fare scelte diverse rispetto a quelle che – per esempio – chiede l’Europa all’Italia: ridurre le spese e il debito, investire solo in misura sostenibile. Uno stato che controlla la propria moneta può invece, ad esempio, pagare il debito emettendo e stampando la propria moneta.
Ovviamente questo emettere moneta ha un alto prezzo: genera inflazione che distrugge i risparmi, ma al contempo sicuramente riduce il debito e rilancia l’economia attraverso la svalutazione della moneta. Almeno per un po’.
Ciò detto, se lo Stato emette una nuova moneta in seguito alla decisione di uscire dall’euro, si troverà comunque a dover finanziare la spesa e rifinanziare il debito – a tassi e costi molto superiori – ridenominato nella nuova moneta. Salvo che sul debito, se ha comunque in modo stabile un avanzo primario (cioè un saldo netto positivo tra entrate e uscite correnti, cosa assai problematica da garantire nelle tempeste finanziarie), può pensare di ristrutturarlo, ad esempio allungando le scadenze: ma perdendo ovviamente in modo drammatico credibilità verso i sottoscrittori. Sarebbe la dichiarazione di default.
Far partire l’inflazione comporta peraltro uno scenario a sua volta di difficilissima gestione, che nella storia del secolo scorso, nella pur virtuosa Germania ha provocato la fine della democrazia e l’instaurarsi di un regime autoritario, con la complicità anche di altri fattori (la crisi del 29 e le riparazioni di guerra imposte dai francesi alla Germania). Portando infine a un nuovo conflitto mondiale. Uno scenario, quello inflattivo, che le persone della mia generazione hanno vissuto – e ricordano ancora – negli anni settanta e ottanta del secolo scorso e che non ha portato grandi benefici a questo paese, bensì ha contribuito a mandare la spesa fuori controllo e a creare il nostro debito attuale, che proprio lì si è formato, per non dire deformato.
Se la storia procede per passi relativamente razionali – pensandola come Hegel – l’Italia dovrebbe raggiungere un compromesso con l’Europa, gestire il proprio deficit, evitare la crescita eccessiva degli spread e soprattutto non dover causare al sistema creditizio un nuovo Credit Cruch, allontanando lo spettro dell’uscita dalla moneta unica. Ma la storia non sempre è razionale, e sicuramente n#on lo è, se non di rado, la politica. Almeno quella che si osserva – non solo in Italia ma in molti altri posti in Europa e altrove – di questi tempi. Quindi fare previsioni ottimistiche o catastrofiche è forse incauto. Ma ignorare i fondamentali e fingere che il 2019 sarà un anno semplice per la finanza italiana lo è ancora di più.