Don't call me copywriter
Se qualche volta ho le idee confuse io, potresti averle anche tu.
Copywriter, content writer, redattore/articolista, storyteller: qual è la differenza? Chi fa cosa? Per chi lo fa? Con quale scopo?
Non avere la risposta a queste domande può essere un problema. Il rischio è di rivolgersi al professionista sbagliato oppure, nel mio caso, accettare un lavoro sbagliato.
Benché io non creda alle distinzioni nette e dogmatiche (poi ti spiegherò perché), voglio provare a fare un po’ di chiarezza in modo schematico.
Copywriter
In breve: scrive per vendere. È principalmente focalizzato su testi e microtesti che convertano, cioè facciano compiere un’azione all’utente (comprare, ma anche iscriversi, cliccare insomma). Lavora soprattutto per la pubblicità; cura i testi degli annunci su Facebook e Google; realizza brochure, flyer, landing page; sales letter, call to action.
Redattore/articolista
Qui il focus è più sull’informazione. Mai sentito parlare di brand journalist? È la figura che si occupa di parlare di un prodotto/servizio/brand in modo indiretto. Scrive quindi veri e propri articoli, attraverso i quali l’utente prima di tutto si documenta e si informa. L’obiettivo non è direttamente la vendita, ma costruire o consolidare la notorietà di un brand, la sua immagine ecc. È la figura giornalistica dietro portali di notizie, guide, recensioni, blog tematici.
Content writer
Lo vedo un po’ a cavallo tra i primi due: anche se non cerca la vendita, mira comunque ad una qualche forma di conversione, per esempio aumentando il coinvolgimento nei confronti di un brand o di un prodotto. E i suoi contenuti possono anche avere carattere informativo. Scrive blog post, newsletter, social post.
Storyteller
Come dice la parola: racconta storie. Ma dato che stiamo parlando di comunicazione aziendale e non di narrativa, è bene sottolineare che anche lo storyteller ha l’obiettivo ultimo di ottenere un risultato. Nella maggiorparte dei casi si tratta di far emergere i valori del brand, di coinvolgere e creare un legame con il consumatore facendo leva soprattutto sulle emozioni.
Come vedi, tutte queste figure (non solo il copywriter), in realtà, “scrivono per vendere”, se per “vendere” intendiamo ottenere un risultato. Quello che cambia è l’approccio.
E l’approccio cambia rispetto al tipo di business; al punto in cui si trova l’utente cui è destinato il messaggio; all’obiettivo da raggiungere (engagement, notorietà, vendita).
Questo è il motivo per il quale non mi piace definirmi copywriter: una qualifica che mi va stretta e non rispecchia del tutto il mio modo di lavorare.
Un po’ per carattere (non sono una venditrice), un po’ per deformazione professionale (dopo vent’anni di giornalismo), sono portata al racconto e dunque i miei testi – anche quando si tratta di landing page (per definizione orientate alla vendita) o siti web – hanno sempre un taglio narrativo: mi piace coinvolgere e accompagnare l’utente nella lettura, per fare in modo che arrivi fino alla fine e sia soddisfatto; contento di non aver perso tempo e di non essersi annoiato.
Ma allo stesso tempo non siamo qui a “pettinare le bambole”: siamo professionisti, imprenditori e dobbiamo portare a casa il risultato. Quindi narrare sì, ma rimanendo sempre focalizzata sull’obiettivo da raggiungere.
Così, preferisco definirmi “copyteller” o, meglio ancora, personal storyteller (o giornalista-acchiappastorie). Sono infatti convinta che, oggi più che mai, a fare la differenza nel business non è tanto il prodotto (quanti sono davvero in grado di mettere sul mercato un prodotto completamente nuovo o migliore?), ma la storia che c’è dietro, i valori che esprime, il carattere e la vision di chi lo fa.
È la quarta immutabile legge del marketing: «Il marketing non è una battaglia di prodotti, è una battaglia di percezioni».
E le percezioni si costruiscono narrando storie e accendendo un’immagine ben precisa nella mente dell’utente.