Essere denigrati, squalificati o peggio, maltrattati. Una risposta nociva al bisogno di Riconoscimento.
Parliamo di un tema scomodo che ha a che fare con il Rispetto di Sé e che rappresenta uno dei pilastri fondamentali della Leadership.
Quante volte durante i percorsi con i miei clienti li ho sentiti dire “Mi mancano di rispetto!” “È una questione di rispetto!” “Se non lo faccio, non mi rispettano più!”
Queste esclamazioni sono la parte visibile - in altre parole la traduzione accettabile - di un dolore profondo e spesso inconsapevole.
Cosa celano i comportamenti di risposta che vediamo messi in campo da chi dice di non sentirsi rispettato, considerato e quindi riconosciuto? Ad esempio la durezza nei toni e nei modi, l’intransigenza, il controllo, la lamentela, la rabbia, la prepotenza?
Tutto questo viene attribuito come risposta possibile alla sensazione di mancanza di rispetto.
Nel profondo “sentirsi rispettati” cosa evoca? Quali sentimenti, pensieri, associazioni emergono con la risposta a questa domanda?
Andiamo a scoprire le radici.
Sentirsi rispettati è la risposta ad un desiderio ancestrale e profondo, che ha a che fare con uno, forse anche il più importante, dei nostri bisogni fondamentali di esseri umani, ossia il bisogno di ESSERE RICONOSCIUTI.
La soddisfazione di questo bisogno essenziale evolve nel corso della nostra vita, nutrendosi di quello che riesce a mutuare da tutte le relazioni che siamo in grado di generare e mantenere, anche quelle che ci fanno stare male.
Il bisogno di riconoscimento si esprime nella richiesta che spontaneamente, quindi indirettamente e involontariamente, facciamo ai nostri simili di darci un segno evidente - ovviamente evidente per noi! - che esistiamo per loro.
È un bisogno che caratterizza la molteplicità delle relazioni che poniamo in essere durante la nostra esistenza: le relazioni professionali non solo non ne sono esenti, spesso ne rappresentano la summa.
“Riconoscimi, o ancor di più riconoscetemi, la mia professionalità, la mia bravura, la mia eccellenza, il mio contributo, la mia dedizione, il mio talento, la mia lealtà… Riconoscetemi tutti, affinché io possa essere quel ruolo, quel professionista, quella proiezione che io ho e do di me!”
Dai segnali di riconoscimento richiesti, ricevuti o non ricevuti, dipende l’idea, il giudizio, il valore che noi abbiamo di noi stessi e quindi anche la qualità della nostra esistenza nel mondo.
Quando questa immagine, questa idea, non viene alimentata da questi segnali, noi non ci sentiamo rispettati nel nostro essere e perdiamo in qualche misura la nostra capacità di esistenza. Improvvisamente ci sentiamo invisibili e inconsistenti. Quasi come se “evaporassimo”!
In questo modo, ci trasformiamo inevitabilmente in potenziali “mendicanti” di evidenze o validazioni dalle quali diventiamo dipendenti, senza nemmeno accorgercene.
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Diventiamo schiavi di un meccanismo disfunzionale, riassumibile in “Solo se ti vedo, significa che ti considero, e quindi tu ESISTI”.
Inevitabilmente finiamo per ripiegare su un’immagine deludente, scadente o comunque negativa di noi stessi, come possibile strategia per colmare questa necessità, giacché è comunque meglio svalutarci, piuttosto che affrontare il dolore che provoca il NON esistere per gli altri che passa appunto dal NON essere visti e considerati.
Le situazioni, i contesti e le relazioni che ci fanno stare male diventano così delle trappole dalle quali faticosamente riusciamo ad uscire, poiché ci incentivano a continuare a dipendere da un riconoscimento esterno, che in realtà dovremmo semplicemente imparare a darci e a riconoscerci da soli.
È un comportamento inconsapevole, una specie di spirale, nella quale cadiamo quando non ci vediamo riconosciuti. Diventa un’azione ripetuta e automatica che ci porta a resistere e sopportare, purtroppo annichilendoci e paralizzandoci.
Siamo immersi in giochi relazionali disfunzionali che fatichiamo ad identificare. Il mobbing ad esempio è spesso un’espressione evidente di queste dinamiche.
Sopportiamo di essere denigrati e squalificati, a volte addirittura maltrattati e umiliati, piuttosto che inesistenti!
Accettiamo una posizione di prestigio scomoda, un ruolo che ci impoverisce, che sentiamo estraneo alle nostre corde, un ruolo vuoto, per paura di affrontare l’ignoto che deriverebbe da una scelta differente e più adeguata per noi stessi, per la nostra vita e la nostra serenità.
Per invertire la rotta distruttiva, o meglio autodistruttiva, bisogna prima di tutto prenderne coscienza. Un percorso di coaching dedicato allo sviluppo della leadership, al suo nutrimento parte e passa anche da qui, ossia dall’incontro con l’ignoto, lo sconosciuto o la sconosciuta che a volte ci capita di essere a noi stessi.
Il primo passo è realizzare di essere vittima del nostro stesso bisogno di riconoscimento per poi poter agire/reagire in modo differente alla mancanza di rispetto.
Fammi sapere cosa ne pensi.
Sarò felice di dialogare con te e di rispondere a tutte le tue domande.