"Gli alberi non vogliono insegnarmi niente!"
A dirlo è Socrate, nel Fedro platonico.
Quella del rifiuto di insegnare, o semplicemente di condividere i propri 'doni' - bellezza, forza, facilità di parola - è una delle figure sociologiche più negative nella cultura greca classica. È l'essenza dell'ingiustizia.
Ma cosa dovrebbe o potrebbe insegnare un albero?
Pare che la pandemia abbia diviso le persone in due gruppi (fra le altre cose): quelli che sentono un improvviso e inspiegabile bisogno di più natura: alberi, cielo... e quelli che sentono il bisogno di più città: persone, comunità.
Io fra i primi. Biofilia, pare che si chiami. Gli alberi sono il soggetto preferite delle mie fotografie. È arduo sceglierne solo alcune: ho alberi poetici, e alberi spogli, alberi esotici, fioriti, verdi, autunnali. E potrei fare una classifica di alberi preferiti nell'arte (o forse l'ho fatta?)
Una favola di Esopo, (su cui ha richiamato la mia attenzione un saggio da me molto amato: G.A. Gilli, Origini dell'uguaglianza. Ricerche sociologiche sull'antica Grecia, Torino 1988; comprato, prestato, ricomprato, ri-prestato; comprato/ter e non lo presto più) parla proprio dell'albero su cui si appunta la critica socratica: il platano.
Due viandanti - questa la favola - d'estate, verso mezzogiorno, si rifugiano all'ombra di un platano per riposarsi. Sollevano gli occhi verso la chioma dell'albero e commentano su quanto inutile sia quell'albero, essendo privo di frutti. Il platano risponde, rimproverando loro l'ingratitudine di accusarlo di sterilità mentre ancora stanno godendo dei suoi benefici.
I platani, sembra, non sono nuovi al tribunale umano, alle accuse di inutilità!
Stanno al gioco del giudizio: opponendo la loro qualità ombrifera a quella fruttifera evocata dagli accusatori. Non si sottraggono al dibattimento: una loro utilità c'è da dimostrarla! delle prove da raccogliere! E i due viandanti che parlano godendo dell'ombra offrono un argomento alla difesa del platano.
Perfino le querce devono sottostare al triste compito di essere utili. Ne sente la tristezza Pindaro (Pyth, IV 263-269):
se con la scure affilata qualcuno/ divelle i rami di una grande quercia/ e ne deturpa il mirabile aspetto,/ sebbene il suo frutto perisca/ offre ancora di sé testimonianza,/ sia che vada, d'inverno,/ a finire nel fuoco,/ o, servendo d'appoggio,/ fra dritte colonne padronali,/ assolva la triste fatica/ fra mura straniere,/ lasciando deserto il proprio suolo.
Colpisce il contrasto fra il "mirabile aspetto" del maestoso albero e l'umiliazione di dover essere portato a processo (letteralmente διδοῖ ψᾶφον περ' αὐτᾶς significa: "si sottopone al voto sulle sue qualità") adducendo a propria difesa il "servizio" assolto, come combustibile o elemento di edilizia, come schiavo in terra straniera.
Non c'è pace per i grandi alberi.
Essi non possono esprimere semplicemente bellezza, radicati nel loro suolo, interi, ignari degli uomini e dei loro bisogni e anzi offrendosi alla contemplazione priva di scopo.
È così, potremmo dire, fin dall'inizio: Ogigia, dove vive la ninfa Calipso, è isola ricca di alberi. Intorno alla grotta che la dea usa come abitazione
una selva d'intorno (...) cresceva fiorente:/ ontano, pioppo e odoroso cipresso (Hom. Od. V 64)
Fonti d'acqua dolce, prati coperti di fiori, uccelli che cinguettano fanno di Ogigia un locus amoenus, uno dei primi della letteratura occidentale: paesaggio mediterraneo, meraviglioso, fuori dal tempo e dallo spazio umano, ignaro di fatiche, spontaneamente generoso di frutti.
Ma questa bellezza senza tempo e senza storia non appaga l'animo di Odisseo. Egli vuole andarsene: la brulla e arida Itaca la preferisce all'isola-giardino. E così Calipso lo guida verso una parte dell'isola dove erano cresciuti alberi alti - l'ontano, il pioppo e l'abete alto-nel-cielo - secchi, adatti a galleggiare.
E quando Calipso se ne torna a casa, Odisseo prende ad abbattere i bei tronchi. Venti alberi! Li sgrossa, li leviga, li adatta fra loro, salda le assi e in breve si costruisce una zattera.
Fine degli alberi. Addio locus amoenus!
Forse questi giardini mediterranei sono più adatti alle donne?
Sicuramente le donne sentono più forte il desiderio di un altrove, di uscire dalle case, dalle fatiche quotidiane, di vivere passioni e turbamenti lontane da occhi sanzionatori. Afrodite è invocata da Saffo a cielo aperto
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dove sboccia di meli un bosco/ e dagli altari si leva/ il fumo di incenso/ e una fresca corrente scintilla fra i rami (fr. 2)
Alberi da frutto e da fiore dunque. Non mancano gli altri ingredienti del locus amoenus: il prato, i fiori, la brezza. Ci sono alberi, torrenti e fiori anche ad Hanging Rock dove le ragazze di un austero collegio femminile si perdono, dopo essersi liberate di scarpe e corsetti, di nastri e formalità, in Picnic ad Hanging Rock di Joan Lindsay...
Questi luoghi sono nella poesia greca i luoghi delle Muse, della poesia e della musica.
È in un luogo come questo che Esiodo da pastore che era, essere ingordo e rozzo, diventa poeta; è su un prato che Archiloco bambino incontra le Muse, che si portano via le mucche che il giovane andava a vendere, e gli dànno uno strumento musicale: sia poeta! e non bovaro.
Se per le donne il locus amoenus è un luogo (anche) del piacere (omo)erotico, dell'ebbrezza olfattiva, del dormiveglia sul prato, della liberazione dai vincoli della vita familiare, della festa e del rito; per gli uomini è il luogo dell'iniziazione al sapere poetico, il sapere delle Muse.
Tempo di tornare a Socrate!
Nel Fedro, Socrate ha incontrato il suo giovane amico, Fedro appunto, raggiante e felice che se ne va in giro fuori dalle mura di Atene, a passeggiare. Fedro ha con sé - cosa ancora rara nell'Atene del tempo! - un libro. E allora i due cercano un posto per appartarsi a leggerlo insieme. Alberi, prato, brezza, torrente: cercano un locus amoenus per dedicarsi alla lettura.
E infine lo trovano: un luogo "adatto ai giochi delle fanciulle" dice Fedro, "un po' più giù" risponde Socrate. C'è il platano e c'è l'agnocasto, le cicale cantano, e l'erba può fare da cuscino.
Socrate è meravigliato. Pure troppo!
"Sembra che non abbia mai lasciato la città nemmeno per recarti fuori dalle mura!" lo prende in giro Fedro... "In effetti no" - risponde Socrate, se si trova lì è solo per la presenza di Fedro, per leggere con lui.
Socrate a quel mondo - di fiori, di acque, di ombra - proprio non appartiene. Se la quercia è in terra straniera quando fa da pilastro o alimenta il fuoco, Socrate è in terra straniera quando legge. Fuor di metafora: c'è un luogo per la poesia, per l'erotismo, per la contemplazione e c'è un luogo per la filosofica, per l'erotica dell'insegnamento, per il dialogo. La poesia come dono divino, come regalo che cala senza affanno e senza ricerca sull'individuo che ne gode primariamente in una sorta di estasi personale, è estranea all'orizzonte socratico della vita come ricerca, senza sosta, con fatica, come un umile lavoratore.
Il poeta è, nei ritratti scultorei studiati da Paul Zanker, un essere sereno e carismatico, un holy man, che sa la verità senza fatica alcuna: la sua fronte è liscia, i suoi capelli lunghi e ben pettinati; così Omero era rappresentato nella statuaria antica. Il filosofo, diversamente, è in posa contratta, la fronte solcata da rughe, il corpo gesticolante esprime la fatica del pensare. Così è ritratto Crisippo, filosofo dialettico.
Ma non solo questo: il livello estetico dell'esperienza del contatto con la natura, di gratificazione edonistica, pur contemplato (la descrizione del locus amoenus nel Fedro è efficacissima, partecipata e sentita) è tuttavia rifiutato da Socrate, per ragioni etiche. Si tratta infatti di un'attività che il soggetto compie da solo, sottraendosi alla condivisione.
Come il platano, anche Protagora, nel Protagora appunto, è accusato scherzosamente da Socrate di "fare ingiustizia" al giovane Ippocrate, cioè di sottrarsi all'insegnamento, di rifiutare il ruolo di maestro che il giovane vorrebbe invece attribuirgli. Altri "ingiusti" umani popolano i dialoghi socratici di Platone: Ione, Ippia, Gorgia. Ingiusti perché renitenti al dialogo, non interessati a definire i contorni della propria abilità, indifferenti a ogni esigenza di analisi e a ogni bisogno conoscitivo.
"Non vuoi dirmi", "non vuoi insegnarmi", "non vuoi mostrarmi" sono accuse che continuamente Socrate rivolge ai suoi interlocutori che sono quel che sono - poeti, sofisti - senza sapere il perché, senza scopo, senza fatica: "partecipi di sorte divina" ma comunque inafferrabili, incomprensibili, potenzialmente ingannatori.
Docente presso Liceo Classico "Duni"
1 settimanaGrazie della condivisione
Un albero non mi insegna, mi sfida: radici salde, silenzio eloquente e crescita costante. Loro stanno, noi impariamo. Biofilia? È solo umiltà davanti alla forza primordiale.