I FINANZIAMENTI INTER COMPANY

E’ situazione assai frequente il ricorrere al finanziamento inter-company da parte di gruppi di società al fine di reperire a costi più convenienti le risorse finanziarie. Tuttavia in tale contesto spesso le problematiche maggiormente rilevanti attengono all’abuso del diritto tributario e alla natura più o meno elusiva di tali operazioni[1]: se però è vero che possono non ricorrere delle ragioni economiche, ben potrebbero ricorrerne delle altre. E’ bene dunque precisare che le ragioni fiscali, di risparmio tributario, non dovrebbero essere le uniche alla base di complessi schemi contrattuali: un principio guida è quello per cui non hanno efficacia nei confronti dell’amministrazione finanziaria quegli atti posti in essere dal contribuente che costituiscono “abuso del diritto”, cioè che si traducono in operazioni compiute essenzialmente per il conseguimento di un vantaggio fiscale; ed incombe sul contribuente fornire la prova della esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti di carattere non meramente marginale o teorico.

Un ideale schema negoziale che consentirebbe un produttivo impiego del capitale generato inter-company secondo una logica orientata alla redditività di impresa, tipica delle operazioni c.d. buying on margin, vede la distinzione di tre distinti interessi economici: un primo, dei covenants ( accordi sul finanziamento ), il secondo, l' equity security ( il diritto di convertire i finanziamenti in capitale sociale ), ed il terzo, gli assets ( le immobilizzazioni, il valore dei cespiti ed i crediti ); essi possono essere correlati mediante lo strumento della delegazione titolata, rapporto di provvista e valuta a favore di una società da parte di una cointeressata. La fattispecie è esclusivamente condizionata all’assenza di conflitto di interessi (art.2475 e ter cc) tra la società delegata e la delegante, in quanto in ipotesi contraria il contratto sarebbe concluso con se stesso e la società delegata, nei rapporti col delegatario, potrebbe, a danno degli altri creditori, diminuire la propria esposizione di provvista ed il relativo rischio, esercitando il proprio covenant, fino all'estrema ipotesi di un rimborso anticipato del finanziamento a danno degli altri ignari creditori sullo stato di salute della società. Al di là delle ipotesi prodromiche stati di crisi aziendale e, più in generale, il venir meno dell’affidamento, un simile contratto tra società verrebbe ad assumere i connotati di un contratto aperto, poichè stipulato tra più società o cui possono aderire anche terzi. E’ altresì evidente che un negozio plurilaterale richiedere una detenzione di “quote proprie” nella società delegante, il cui fine sarebbe, anzitutto, quello di escludere un conflitto di interessi della società delegata con il delegatario, con l’unico obiettivo di mantenere inalterato il valore del capitale della delegante. Ciò è chiaro se si considera che le operazioni sul capitale necessitano sempre della conoscenza delle ragioni di diritto alla base di certe o talaltre operazioni societarie. Ad esempio, per dubitare del valore assoluto del divieto dell’art. 2474 cod. civ., si deve osservare che è peraltro ammessa la riduzione del capitale nella s.r.l. (art. 2482 cod. civ.), per cui non potrebbe essere vietato l’acquisto di quote proprie finalizzato alla successiva riduzione - anche non immediata - del capitale sociale. Si noti che l’attuazione dell’operazione di riduzione potrebbe anche tardare e, nel contempo, le quote proprie acquistate dovrebbero pur figurare in bilancio (!). Se, in attesa dell’attuazione della riduzione, si presentasse poi l’occasione favorevole, la società potrebbe anche vendere le partecipazioni proprie nel rispetto dei diritti di prelazione. A fortiori l’osservazione dovrebbe valere per le quote proprie (ex azioni proprie) pervenute, ma sarebbe meglio dire mantenute, in sede di trasformazione o fusione.

A riprova della convenienza di negozi giuridici finanziariamente convenienti, seppur atipici, si rappresenta il valore economico che possono generare quelle estensioni dell’interesse sociale da società di capitali a contratti di godimento di azienda (i e società di fatto) utili al reperimento di risorse finanziarie, evidentemente posti in essere secondo la disciplina dell'art. 2556 c.c..

Ebbene, essendo i crediti commerciali potenzialmente idonei a circolare come titoli di credito se oggetto di delegazione titolata in provvista e per valuta, un modello contrattuale di tal specie è nominato contratto di Stock Lending. Esso è costituito da un prestito di titoli contro pagamento di una commissione (fee) e contestuale costituzione da parte del mutuatario (borrower) di una garanzia (rappresentata da denaro o da altri titoli di valore complessivamente superiore a quello dei titoli ricevuti in prestito, ivi compreso un finanziamento inter company), chiamata collaterale, a favore del mutuante (lender), a garanzia dell’obbligo di restituzione dei titoli ricevuti (assets).

Alla scadenza il mutuatario, la società finanziata, restituisce al mutuante, la società finanziatrice, altrettanti titoli o somme, della stessa specie e quantità dei titoli ricevuti come provvista, ed il mutuante ritrasferisce al mutuatario i beni oggetto della garanzia, azioni o quote come equity securities. Se il collaterale – il debito inter company - è costituito da cash, il lender ha il dovere di remunerarlo al borrower ad un tasso di mercato. Se invece il collaterale fornito è non-cash non viene richiesta alcuna remunerazione.

In tale contratto vi è la necessità che il rapporto esistente tra il valore dei titoli mutuati, una provvista della delegazione titolata, ed il valore dei beni costituiti a garanzia, le azioni o quote, rimanga inalterato nel corso della durata dell’operazione (c.d. rapporto a doppia causa).

Ne consegue che entrambe le parti saranno obbligate ad integrare la garanzia originariamente prestata (in caso di apprezzamento della provvista quale oggetto del prestito) o a restituire l’eccedenza (in caso di deprezzamento).

Questi prestiti possono essere aperti, c.d. on open basis; in tal caso non hanno una durata stabilita e quindi il borrower può chiudere l’operazione in qualunque momento (return) mentree il lender può chiedere la restituzione dei titoli in qualunque momento (recall). E’ la forma più utilizzata in quanto consente una maggiore flessibilità operativa; il tasso sottostante l’operazione può essere oggetto di rinegoziazione (re-rate) durante la vita del prestito per adeguare lo stesso a mutate condizioni di mercato. Oppure possono essere prestiti chiusi; in tale fattispecie la durata del prestito è stabilita a priori e i due contraenti non possono chiudere l’operazione in anticipo e neppure rinegoziare il tasso. Le fee maturate sui prestiti, così come gli interessi sulla garanzia cash (rebate), vengono pagati/incassati mensilmente e non alla scadenza di ogni singola operazione.



[1] Corte di Giustizia, con l’importante sentenza C-425/06 del 21 febbraio 2008.



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