Il cimitero dei flop
Non è aperto al pubblico, ma a manager e dirigenti che studiano i più sonori e clamorosi disastri commerciali della storia. Sono tutti ordinati all’interno di un edificio di Ann Arbor, in Michigan, e ognuno racconta storie di carriere infrante, target sbagliati e budget milionari andati in fumo
A forza di stringere, condensare e ridurre, il senso di un errore - inteso come “flop” commerciale - sta tutto in una frase di Robert Brault, uno dei più grandi e prolifici autori di aforismi al mondo: “Fare un errore al giorno non è solo accettabile, ma è la definizione stessa di progresso”.
Sbagliando s’impara, direbbe la saggezza di una nonna, anche se nel marketing il sentimento della comprensione non rientra quasi mai fra le clausole di un contratto. Eppure, il lungo cammino dell’arte di vendere, costellato di glorie planetarie che hanno cambiato i destini di un’azienda, continua a nutrirsi di autentici disastri epocali di prodotti lanciati sul mercato con grande spreco di energie e risorse, e uno dopo l’altro rispediti al mittente con il corredo di una sonora pernacchia.
Una galleria di flop piena zeppa di startup anonime chiuse da un notaio ancora prima di iniziare, ma anche di nomi che contano, colossi accomunati dal passo falso che dà un senso all’esperienza e alla teoria dei passi piccoli e ben distesi. Uno degli esempi migliori sono le “Beef Lasagna”, sciagurata idea della “Colgate”, colosso americano di prodotti per la cura del corpo, uscite nei facili anni Ottanta e accolte dal pianeta con il dubbio che l'ingrediente segreto nascosto fra ragù e besciamella fosse la menta del dentifricio. Nel dubbio, non le provò quasi nessuno.
Nello stesso periodo, la Coca-Cola annuncia con enfasi una rivoluzione chiamata “New Coke” che cambiava il gusto della bevanda più amata al mondo. Un esperimento naufragato in soli 79 giorni, sufficienti perché la multinazionale di Atlanta rimettesse in produzione la vecchia formula inventata dal farmacista John Pemberton. Un errore clamoroso di valutazione che, per quegli strani giochi del mercato, avrebbe ridato una seconda giovinezza alla Coca “Classic”, capace di superare d’un balzo le vendite della rivale “Pepsi”. Esattamente il motivo per cui era nata la New Coke.
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Una pinacoteca di orrori a cui in Svezia è stato dedicato un museo, ma che ad Ann Arbor, in Michigan, sono diventati una tappa obbligatoria per manager di ogni angolo del mondo, spediti a mandare a memoria un mantra: i successi passano, ma gli errori sono scritti nella pietra. A imperitura memoria di carriere e budget.
La palestra dell’ardimento del marketing U.S.A. non ha nulla dall’esterno che possa far pensare ad un’esposizione: è un anonimo prefabbricato grigio che un tempo ospitava una concessionaria d’auto, dal 2001 diventato la sede della “Gfk Custom Research North America”. All’interno, tutto è sistemato come un enorme supermercato, con le corsie piene di prodotti messi insieme un po’ a casaccio: detersivi accanto a dolci, rasoi di fianco a sughi pronti, zuppe autoriscaldanti e yogurt, tutti curiosamente presenti in un solo e unico esemplare, perché di più non serve. È il cimitero della fantasia, dove riposano per sempre le più clamorose nefandezze mai partorite da uffici marketing con l’incubo del successo, una molla che può spedire fra le nuvole o far rimbalzare sull’asfalto con la stessa impressionante velocità.
La raccolta non è aperta al pubblico, i pochi visitatori sono manager, dirigenti e funzionari di grandi aziende che pagano una cifra d’ingresso per dare un’occhiata da vicino ai passi falsi di loro colleghi, magari passati dalle sacre pietre di Wall Street a quelle meno nobili di un campo di cicoria. Li accompagna un’impiegata che, consapevole del costo in termini di esistenza di ogni singolo flop esposto, ne illustra brevemente la storia.