Il destino dell'Inno

Il destino dell'Inno

Se volessimo traslare alcuni basilari elementi della comunicazione di brand alle espressioni del potere costituito, potremmo dire che l’inno di una nazione è il jingle di un popolo.

In termini puramente neurolinguistici, un inno è una neuro-associazione fra due stimoli diversi. È una delle tante declinazioni degli studi di Pavlov sui riflessi condizionati.

In poche parole, se quando ascoltiamo il nostro inno, ci vengono i brividi o ci emozioniamo anche solo un po' è perché l’abbiamo sentito troppe volte in momenti solenni quali celebrazioni, avvenimenti sportivi importanti, premiazioni e così via.

Tutti appuntamenti che riguardavano intensi momenti del nostro essere “italiani”. 

L’associazione costante fra musica e solennità dell’avvenimento con il rinforzo della “riprova sociale” degli altri italiani che sembrano manifestare il nostro stesso stato d’animo, causa una serie di reazioni biochimiche che producono quella “certa emozione”.

Ma in quanto jingle di una nazione, forse l’inno nasconde in sé qualcosa di profondo sui caratteri comuni di un popolo.

Anche perché, se consideriamo che l’essere umano impara per EMULAZIONE e RIPETIZIONE, c’è da domandarsi cosa possa succedere ad un popolo che per generazioni ripete, cantandole, specifiche parole riguardo alla propria storia ed alla propria identità.

Si è parlato molto in epoca di Coronabond del “triangolare” fra Italia, Germania e Olanda. Gli italiani che chiedono solidarietà per riscattare la propria condizione, i tedeschi che nicchiano e mandano avanti gli olandesi (storici alleati) a fare la parte del poliziotto cattivo. Ancora oggi viene ricordato il primo presidente della BCE, l’olandese Wim Duisberg, che si diceva fosse soprannominato “Mister 15 minuti” per la velocità con cui diceva di sì alle richieste tedesche.

ITALIA

L’inno in voga dal dopoguerra è in verità del 1848.

Lo scrisse Goffredo Mameli a 20 anni. Morì l’anno dopo a Roma per i suoi ideali. Anche solo per questo, Mameli meriterebbe il massimo rispetto.

E il suo inno fu premonitore nel tratteggiare l’evoluzione storica del carattere degli italiani.

«[…] l’Italia si è desta…»

Dall’inizio si percepisce l’esortazione all’azione, all’uscita dall’oblio di quello che sarebbe un popolo dal grande potenziale, ma che, per una serie di ragioni, fino a quel momento non è riuscito a rivelare. Ci ricorda qualcosa di attuale? 

«[…] dell’elmo di Scipio si è cinta la testa, dov’è la vittoria? Le porga la chioma, che schiava di Roma, Iddio la creò [ecco si è messo l’elmo! Adesso esce di casa e vedi cosa ti combina…!] …»

Diciamo che è tutto concentrato sul risveglio prima del riscatto, cioè sul momento precedente all’azione, sulla preconizzazione di un futuro fiero e cameratesco; sulla teoria, insomma, dove noi italiani diamo il meglio.

Con la sottintesa frustrazione di dover richiamare i tempi della Seconda guerra punica per ritrovare un po' di gloria guerriera.

Quando viene suonato, il nostro inno è una marcia, forse un po' chiassosa, ma allegramente trionfale. Però è quando lo cantiamo, che noi italiani riveliamo una parte della nostra natura. 

Si arriva al verso che chiude la prima strofa:

«[…] che schiava di Roma Iddio la creò…»

che ormai serve solo per giungere di slancio a quello che è ormai per il popolo italiano il momento clou del nostro inno 

«[…] popopo popopo popopopopopopopo…»

Ecco, l’italiano pensa sempre che tutto finisca in commedia.

Diceva Ennio Flaiano:

«In Italia la situazione è sempre grave, ma mai seria»

Per noi poche cose meritano di essere considerate seriamente. Per questo ci attiviamo solo nelle tragedie vere. 

Per il resto, dopo un po’ ci scocciamo e ci facciamo attrarre dal cazzeggio.

 GERMANIA

Tanto per gradire i tedeschi hanno lo stesso inno dal 1849. Compreso il periodo nazista.

Si chiama Deutschland über alles (La Germania al di sopra di tutto). 

A dire il vero il governo tedesco fra gli anni 50 e gli anni 60 provò a sostituirlo per ovvie ragioni storico-politiche, ma il popolo tedesco non gradì il cambio.

L’attacco dell’inno è notoriamente tranquillizzante, portato all’ecumenismo e all’abbraccio fraterno con tutti i popoli del mondo:

«La Germania, la Germania al di sopra di tutto, al di sopra di tutto nel mondo […]»

Già dall’inizio direi che non c’è molto spazio per gli equivoci. 

Ma la strofa va avanti, dimostrando che l’ossessione, prima dei Prussiani e poi dei nazisti per lo spazio vitale (lebensraum), è una roba che parte da lontano.

E siccome i tedeschi sono un popolo preciso, già definiscono i confini nella prima strofa, che poi non nascano equivoci casomai andassimo dal notaio!

«[…] dalla Mosa fino alla Memel dall'Adige fino al Belt, Germania al di sopra di tutto, al di sopra di tutto nel mondo…»

Peccato che la Mosa sia un fiume che nasce in Francia e sfocia nei Paesi Bassi passando dal Belgio, che il Memel sia fiume che nasce in Bielorussia e sfocia in Russia passando dalla Lituania, che l’Adige nasca in Italia e sfoci in Italia passando dall’Italia e che il Belt sia uno stretto danese confinante con lo Jutland.

Non credo che esista nel 2020 un inno al mondo in cui un Paese faccia propri i possedimenti di altri Stati, di cui due nemmeno confinanti. Forse chi dice che in Europa i tedeschi vogliono avere un ruolo egemonico con scarsa volontà di confrontarsi alla pari con gli altri paesi membri, ha letto il testo del loro inno.

OLANDA

L’inno olandese è della metà del ‘500 e si chiama Het Wilemhus (Il Guglielmo).

Nessuno si offenda, ma la prima volta che ne ho sentito parlare, mi è venuto in mente l’Armando di Jannacci:

«[…] che si è aperta la portiera, è caduto giù l'Armando…»

E recita:

«[…] Guglielmo di Nassau, son io, di sangue tedesco, fedele alla madrepatria rimarrò fino alla morte. Un principe d'Orange, libero sono, ed imperterrito; il Re di Spagna ho sempre onorato…»

Roba forte. 

Praticamente nell’inno olandese, di Olanda, non se ne parla. Non sarà in franchising?

Mi domando quanti siano gli Inni in cui il protagonista (Guglielmo D’Orange), promettendole fedeltà fino alla morte, affermi di appartenere ad un’altra Madrepatria. E ad un altro sangue.

Non è semplice sintonia. È l’affermazione che i Paesi Bassi si sono fatti forma dell’anima tedesca che contengono.

Forse non a caso, quindi, i Paesi bassi furono fra i più collaborazionisti fra tutti quelli invasi dai tedeschi nel corso della seconda guerra mondiale.

Lo ha ricordato lo stesso Primo Ministro Rutte quando, nel corso della Giornata Mondiale della Shoah, con encomiabile tempismo, il 27 gennaio 2020 ha chiesto scusa agli ebrei olandesi ricordando che il 75% di questi (105.000 circa) furono trucidati in meno di 5 anni. Forse come inno sarebbe più adeguato Il silenzio.

E non vi fate idee sbagliate: Nassau non è quella nelle Bahamas. È un paesello a 60 km da Francoforte.

Il passaggio finale sul Re di Spagna (siamo nel 500) sembra suggerire perché i Paesi Bassi hanno Rotterdam, il più grande porto d’Europa. Perché sanno stare sul mercato.

Con una certa malizia, potremmo dire che qui ritroviamo un atteggiamento mentale che noi italiani conosciamo bene.

Per cui andasse male coi crucchi, mettiamo un cip anche sugli spagnoli: “Con la Germania o con la Spagna, purché se magna!”.

Roberto Rondinelli - Chairman Mpr Comunicazione Integrata

Sonia Pirro

Wholesales Italia

4 anni

Una chiara analisi delle parole e dei fatti.

Per visualizzare o aggiungere un commento, accedi

Altre pagine consultate