Il mio Erasmus+ Placement 2017
Innanzitutto vi rivelo che l’Erasmus Placement non volevo farlo. Chiaro, no? Ho avuto dubbi fino all’ ultimo. Questo per dirvi che essere convinti fin dall’ inizio, cosa tra l’altro tipica del mio carattere, non sempre accade. Eppure è stato meraviglioso.
Inizialmente pensavo: “Vado via, mi stanco, torno che ci metto un po’ per riprendermi e magari resto anche indietro con gli esami”. La risposta che mi davano i miei amici era: “A parte che non è detto che tu torni così esausta, per di più ti fai l’esperienza in ospedale e vivi fuori casa” – essendo di Bologna vivo ancora con i miei. Poi ho ricevuto la spinta che mi serviva per buttarmi: un mio compagno di corso nonché grande amico, proprio nel periodo in cui dovevo far domanda per la borsa Erasmus, era a sua volta in Erasmus (Studio) a Parigi. Raccontandomi della sua esperienza mi disse: “Il bravo medico non è colui che sa la teoria e basta, bisogna anche saper fare e saper trattare col paziente. Si studia bene in Italia, ma dal lato pratico conviene andare all’ estero”.
Vivere fuori casa + pratica = dai, ci provo! Lui sapeva già che sapevo nuotare. Non smetterò mai di ringraziarlo per avermi convinta.
La mia fortuna è quella di aver sempre avuto ben chiaro in mente la strada che volevo intraprendere e, nel mio caso, diventare una neurologa. Per questo motivo, sapevo già dove far domanda: solo nei centri o reparti neurologici. “Piccolo” problemino: a parte l’italiano, conosco solo l’inglese, per cui non mi restava che cercare un posto che accettasse la mia domanda nel Regno Unito.
Per trovarlo ho fatto una lunga ricerca e ho inviato circa una cinquantina di mail in ospedali diversi. La stragrande maggioranza non mi ha neanche risposto, qualcuno mi ha risposto che non era interessato, pochissimi altri inizialmente sembravano interessati per poi scartarmi. Io continuavo a mandare mail sia a centri molto importanti sia a centri minori. In realtà, per chi sta ancora imparando le basi della medicina e non è già in specializzazione, un centro piccolo è la struttura ideale perché si è ben seguiti (con questo, non è detto che in un grande ospedale non seguano, eh!).
Dopo molti “no” e dopo essere stata ignorata nonostante i miei sforzi, ho cominciato a essere particolarmente frustrata finché, durante un pomeriggio di fine aprile, ricevetti una mail da un ospedale di Liverpool, l’unico ospedale specializzato proprio nella neurologia e nella neurochirurgia, disposto a prendermi. Evviva!!!
Faccio il test di lingua inglese, compilo la domanda per la borsa Erasmus, la vinco e non resta che (affrontare anatomia patologica - terrore- ) partire.
Piccola premessa: la casa dove abitavo non era molto pulita e soprattutto aveva la moquette (segue urlo di terrore). Nonostante la casa orrenda, sono stati dei mesi bellissimi. A volte inspiegabilmente non andava il riscaldamento. Non riuscivo a chiudere completamente le finestre per cui entravano delle folate d’aria gelide, eppure, mi son goduta tutto tantissimo. Abitavo di fianco all’ ospedale assieme ad una specializzanda cinese e ad una ginecologa africana.
Veniamo al dunque, questione ospedale: moderno, pulito e pieno di gente cordiale. Ogni persona a cui mi son rivolta mi ha risposto cortesemente e sempre aiutata, che fossero professori, medici, chirurghi, infermieri, OSS, fisioterapisti, neuropsichiatri, o altro personale sanitario. Ero ben accetta ovunque, bastava che mi presentassi – insomma, che fossi una persona educata – e avevo libero accesso a qualsiasi ambulatorio o sala operatoria.
Ho frequentato regolarmente ambulatori di ogni tipo di sub-specializzazione neurologica avendo l’opportunità di fare l’esame obiettivo al paziente se non anche l’anamnesi. Ho assistito a interventi di radiologia interventistica. Ho frequentato la sala operatoria dove mi han fatta lavare. In sala non ho fatto altro solo perché ero più orientata verso la clinica, ma la disponibilità ci sarebbe stata. Ho imparato a fare punture lombari, a prendere il sangue venoso e a incannulare le terapie. Ho seguito briefing e giri visite in reparto. Inoltre, ho partecipato a meeting e lezioni per i dottori in specializzazione. Insomma, ho imparato un sacco di cose, sia teoriche sia pratiche. Mi sentivo parte del sistema e finalmente, dopo tanti studi non ancora terminati, ho sentito di poter dare una mano alle persone, mi son sentita utile, finalmente ho aiutato qualcuno sulla base delle competenze che avevo acquisito, grazie al sudore della fronte degli anni passati a studiare così tanto.
Ultimo ma non meno importante, ho decisamente migliorato il mio inglese e non solo parlato ma anche la lettura considerando che leggevo quotidianamente le cartelle cliniche e articoli scientifici.
Addirittura ho trovato titolo e materiale per la tesi. Dico “addirittura” perché non era programmata. Sono andata in sala operatoria per vedere un intervento che mi interessava particolarmente e il neurochirurgo, dopo alcune chiacchiere sia prima sia durante l’intervento, mi ha proposto una collaborazione. Ovviamente ho dovuto -e voluto- chiedere il parere al mio relatore, persona molto disponibile e aperta per quanto riguardo l’estero, per cui mi ha risposto subito e positivamente.
Mi son fatta nuovi amici, la maggior parte dei quali non British al 100% perché, come si sa, nel Regno Unito c’è tantissimo Melting Pot. Alcuni frequentavano proprio l’università di Liverpool, mentre altri erano lì per un breve periodo di tirocinio, proprio come me.
Sono arrivata che ero sola, senza alcun amico della mia università che intraprendeva lo stesso tipo di esperienza. Io sono una persona estroversa e anche andare all’ estero aiuta a diventarlo, si rompe il ghiaccio più facilmente con gli sconosciuti, e pian piano si fanno amicizie e così si ha la compagnia per andare fuori a ballare o a cena. Alla fine dei conti, sola non lo son mai stata.
Questa esperienza è stata molto importante soprattutto per me stessa, la Flavia senza camice. Nel guardare “Scrubs” mentre cenavo sono stata un' amica per me stessa, quando le raffiche di vento mi han portato il mal di gola mi son curata come fossi mia madre, quando ho avuto dei momenti giù – inutile negarli e, anzi, fan parte dell’esperienza! – non sono stata solo una amica ma una migliore amica, quando mi mancava il mio ex – con cui mi ero appena lasciata – “mi sono abbracciata da sola”. Ho imparato a star da sola pur incontrando persone nuove o appena conosciute ogni giorno. Mi sono adattata a una casa che non mi piaceva per niente (e che mai mi mancherà!) e ad un clima ostile per una come me che è capace di indossare il pile la sera ad agosto. Ho vissuto l’impatto con un ospedale in Inghilterra in cui il primo giorno non sembrava si parlasse inglese ma arabo, ho fatto tantissime brutte figure tra gli errori di lingua e le porte aperte per sbaglio ma le rifarei tutte, perché sia i momenti belli sia gli attimi brutti, sia i complimenti sia le situazioni in cui avrei voluto solo scomparire han reso tutto più carico di energia, più vivo, più speciale, da rivivere tutto da capo senza cambiare un solo secondo.
Non nego che il ritorno a casa, anche se si sta via solo due mesi, è traumatico. Ti adatti a una certa routine, in un determinato luogo… ma fa parte del gioco. Permette di apprezzare l’esperienza anche una volta tornati a casa, che è quando lo si metabolizza per davvero. C’è una frase che mi insegnarono quando andai a vivere per due mesi in famiglia in Thailandia e dice: “Don’t cry because it’s over but smile because it happened”. Niente di più vero.
Vi ricordate come ho cominciato questo articolo? “Comincio col dirvi che non volevo farlo”: vi dico solo che sto facendo domanda anche per l’anno prossimo :)