Il neurobranding è etico?
Riuscirà il neuromarketing a sposare l’etica?
A dir la verità, torna in mente quanto il bravo sussurra all’orecchio di Don Abbondio: “Questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai”. Ma davvero è un matrimonio impossibile? Forse sì. O forse no. O forse dipende da che tipo di relazione i due promessi sposi riescono a instaurare.
Le neuroscienze sono un ramo della biologia che studia il sistema nervoso e che richiede, nelle sue ricerche, un approccio di tipo interdisciplinare, capace di unire sia discipline scientifiche, dalla biologia alla chimica, dalla anatomia alla genetica, dalla fisica alla matematica, sia umanistiche, come la psicologia comportamentale e la linguistica. Oggi, grazie ai progressi tecnologici e allo sviluppo di strumenti d’indagine sempre più sofisticati, possiamo affermare che, per i neuroscienziati, il cervello non è più uno sconosciuto: si è in grado di vederne e studiarne il funzionamento a più livelli.
C’è qualcosa di moralmente sbagliato nel voler comprendere la nostra materia grigia e i suoi processi fisiologici e cognitivi? Pare di no, se l’obiettivo è fare il bene dell’uomo e non lederne i suoi inalienabili diritti. E qui si entra nel terreno, direi abbastanza minato, della bioetica, ossia quell’etica applicata che s’interroga sui problemi morali sollevati in campo medico e biologico da procedure, interventi o esperimenti che coinvolgono più o meno direttamente la vita umana.
Nel caso delle neuroscienze, i criteri di liceità sottintendono il principio che esse debbano venire utilizzate nel rispetto della persona e della sua dignità, considerata integralmente in tutte le sue dimensioni: fisiche, psichiche e spirituali. In questo senso, la bioetica si avvicina alla filosofia morale, che analizza i valori che devono guidare il comportamento dell’uomo nei confronti degli altri uomini. Le neuroscienze, allora, possono essere considerate del tutto etiche, a patto che non diventino strumentali a cancellare la libertà di scelta autonoma dell’individuo e la sua responsabilità.
Le tecniche di neuromarketing, dunque, che si avvalgono delle scoperte e delle metodologie delle neuroscienze al fine di mettere a punto forme di comunicazione più efficaci per influire sui processi decisionali del consumatore, sono da ritenersi etiche?
E il neurobranding che, delle tecniche di neuromarketing, si serve per posizionare un prodotto nel cervello di un individuo, comunicare al meglio l’identità di marca di un brand e modellare il comportamento delle persone, è da considerarsi un’attività etica?
Sia il neuromarketing che il neurobranding sono eticamente sostenibili, solo quando individuano nella salvaguardia della persona l’orizzonte morale di riferimento del loro operato. Non lo sono, e senza alcuna possibilità di appello, quando utilizzano l’uomo come mezzo e non come fine. La questione etica sul tappeto è quella dell’intenzione in base alla quale si agisce. Se le tecniche predittive e le strumentazioni tecniche di rilevazione delle neuroscienze vengono applicate per comprendere la customer experience e rilevare i desideri e i bisogni latenti dei consumatori affinché le aziende li possano adeguatamente soddisfare, attraverso l’offerta di un determinato prodotto/servizio, la loro intenzione è eticamente ineccepibile, poiché si cerca di capire quale sia la domanda per poterle venire incontro nel modo migliore.
Se, invece, il neuromarketing e il neurobranding partono dall’offerta per condizionare la domanda, influenzando in modo manipolatorio i consumatori, il loro obiettivo è completamente privo di etica perché tende a ingabbiare le persone in processi decisionali e comportamenti d’acquisto e consumo predefiniti e non liberamente scelti, non mettendole nelle condizioni di elaborare un pensiero critico.
Potremmo chiederci se sia lecito usare gli stereotipi e i bias cognitivi e, più in generale, le componenti emozionali e irrazionali della mente umana, per comunicare con i consumatori. Non lo è per gli stereotipi, e può esserlo per i bias cognitivi, se li si adottano come presentati nei capitoli precedenti. Pur senza arrivare al biocontrollo, paventato da Packard nel suo celeberrimo I persuasori occulti alla fine degli anni Cinquanta del Novecento, di certo vincere facile, facendo leva su aspetti di cui l’uomo è inconsapevole per spingerlo a determinati comportamenti d’acquisto e di consumo, sa di controllo da parte delle aziende, dei processi mentali e delle percezioni delle persone.
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Gli unici casi in cui la persuasione della parte più influenzabile della mente umana può rivelarsi moralmente accettabile sono quelli in cui esiste una finalità sociale che ne giustifica il ricorso. Per esempio, per favorire negli individui e nella società l’abbandono di comportamenti lesivi per la salute o per promuovere l’adozione di prodotti/servizi sostenibili in senso ambientale. In questi anni, si sono svolte alcune ricerche che hanno confermano come perseguire obiettivi a carattere etico possa giustificare, da parte di organizzazioni non profit così come profit-oriented, il ricorso a tecniche e strumenti di neuromarketing e neurobranding.
Di neuroetica si parla dal 2002, data in cui si è svolta a San Francisco la conferenza Neuroethics: mapping the field. È lo studio di ciò che è corretto o scorretto, buono o cattivo, nell’applicazione delle neuroscienze alla vita delle persone. Le criticità etiche sono tante, in effetti: dalla manipolazione del cervello umano alla compromissione della privacy attraverso strumenti di neuroimaging in grado di leggere la mente. Occorre, dunque, valutare l’impatto etico e sociale dei risultati degli studi neuroscientifici e valutarli alla luce della filosofia morale.
Sfruttare le fallacie cognitive dell’individuo nella comunicazione di marketing ci riporta a una questione molto cara alla filosofia morale, che è quella del peso che ragione ed emozione rivestono nel processo di presa di decisione da parte di una persona. E poiché, oggi, le neuroscienze ci dicono che la facoltà di giudizio sarebbe costituita da processi automatici intuitivi e inconsci, in sostanza che l’attività cognitiva superiore sarebbe preceduta, permeata e influenzata dalle reazioni emotive, è di fondamentale importanza che il giudizio delle persone non subisca condizionamenti. Tranne nelle situazioni in cui s’intenda influire positivamente sulle valutazioni di una persona affinché essa si comporti in modo etico sia per se stessa che per la comunità e il pianeta. Per esempio, spingendola a non sprecare risorse limitate, a integrare culture diverse dalla propria, a adottare norme igienico-sanitarie per non mettere a repentaglio la vita propria e altrui.
Come Renzo e Lucia riescono, dopo mille peripezie, a convolare a giuste nozze e a farsi una numerosa e felice famiglia, anche il neuromarketing e l’etica, nonostante le frequenti critiche alla loro ossimorica relazione, possono sposarsi e dare vita a qualcosa di buono per il brand. E questo può accadere, ad alcune condizioni:
· se l’azienda è in grado di creare valore per la società nel suo insieme, ascoltandone desideri e bisogni, e non è solo preoccupata di vendere e aumentare il proprio fatturato;
· se, nell’occuparsi della relazione tra attività cerebrale e comportamento, rispetta il diritto alla scelta, il diritto alla sicurezza e il diritto a essere informato del consumatore;
· se opera come organizzazione non profit o in un settore industriale già orientato verso prodotti/servizi percepiti come positivi piuttosto che in quello delle armi, del tabacco o dei combustibili fossili.
Questo matrimonio, alla fine, s’ha da fare.
Questo articolo è un estratto del box di approfondimento di Mariagrazia Villa tratto dal mio libro dal titolo: Neurobranding edito da Hoepli.
Docente di "Etica dei media" allo IUSVE, giornalista del Constructive Network, TEDx Speaker
3 anniGrazie, caro Mariano!! 🙏🏻 Finire nella tua newsletter non è da tutti, e ne vado molto orgogliosa.