IL (NUOVO?) RIPARTO DELL’ONERE PROBATORIO NEL PROCESSO TRIBUTARIO
di Francesco D'Ambrosi

IL (NUOVO?) RIPARTO DELL’ONERE PROBATORIO NEL PROCESSO TRIBUTARIO

📝 IL (NUOVO?) RIPARTO DELL’ONERE PROBATORIO NEL PROCESSO TRIBUTARIO

L’introduzione di un ulteriore comma all’art. 7 D.lgs. 546/1992, rinvenibile tra le variegate disposizioni contenute nella recente riforma della giustizia tributaria, pone alcuni interessanti spunti di riflessione. Il primo periodo della nuova norma stabilisce, con una certa nettezza, che “L’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato”. Il terreno interpretativo, chiaramente, è quello del riparto dell’onere probatorio.

La storica assenza di un’espressa regolamentazione sul punto, per il sistema processuale tributario, ha portato da sempre (correttamente) gli operatori del diritto e la Suprema Corte ad optare per l’estensione, anche ad esso, della previsione contenuta nell’art. 2697 c.c. In conseguenza di ciò all’attore spetta l’onere di provare i fatti costitutivi del diritto che intende far valere, al convenuto, invece, i fatti impeditivi, modificativi o estintivi. 

Nella dinamica specifica dei giudizi tributari vi è la stessa divaricazione tra attore e convenuto in senso sostanziale e attore e convenuto in senso formale che, nell’ambito della procedura civile, conosce il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo. In senso sostanziale, pertanto, attore è l’Amministrazione finanziaria: ad essa spetta quindi la prova dei fatti giustificativi posti a fondamento dei propri rilievi. Al contribuente, invece, incombe la sola dimostrazione dei fatti impeditivi, modificativi ed estintivi della pretesa erariale (Cass. n. 11101 del 2022 su tutte).

Ciò appare peraltro pienamente coerente con un ordinamento tributario punteggiato di specifiche presunzioni legislative a favore del Fisco, che permettono di dedurre la natura fisiologica dell’onere probatorio a carico di quest’ultimo. Detta consolidata conclusione, peraltro, è del tutto necessaria a riequilibrare la pericolosa asimmetria conoscitiva, a svantaggio del contribuente, determinata dai penetranti e invasivi strumenti d’indagine a disposizione del Fisco. 

Se in primis la norma si è riservata il compito di introdurre, per il processo tributario, una regola autoctona per il riparto dell’onere della prova, questa non va intesa come replica esatta dell’art. 2697 c.c. Per verità il nuovo comma dell’art. 7 impone a nostro avviso la necessità di un più approfondito esame, teso a coglierne un ulteriore intendimento. Scostandosi da una lettura meramente ricognitiva, se ne deve più propriamente valorizzare l’efficacia di monito. In questa sola direzione sarà possibile, soprattutto, rendere la disposizione coerente coi principi di effettività della tutela e di giusto processo, cui ogni processo, compreso quello tributario, deve costantemente aspirare.

I sostenitori di una lettura riduttiva fanno forza sulla prima e per ora unica pronuncia del Massimo Consesso (ordinanze gemelle nn. 31878 e 31880 del 2022), per cui “… la nuova formulazione legislativa […] non stabilisce un onere probatorio diverso o più gravoso rispetto ai principi già vigenti in materia, ma è coerente con le ulteriori modifiche legislative in tema di prova, che assegnano all'istruttoria dibattimentale un ruolo centrale.”. Ciò facendo, tuttavia, si dimentica che tale conclusione prende spunto da un caso di specie in cui il quadro indiziario fornito dall’Erario risultava realmente sufficiente per giustificare la pretesa, laddove la parte privata aveva mancato di dimostrare legittimità e fondatezza del proprio operato. In termini di prova dei fatti allegati, quindi, il giudice non verteva in uno stato di incertezza tale da impedirgli di formulare un giudizio conclusivo attendibile circa la verità dei fatti. 

Se il contesto ideale della riforma è quello del giusto processo tributario, al quale fino ad oggi è mancata una esplicita disciplina relativa alla distribuzione dell’onere della prova, non si può pensare che il legislatore si sia limitato ad estendere le previsioni civilistiche, cristallizzando i principi sino ad oggi formulati. Di questo sono pienamente convinte le stesse Corti di Giustizia Tributaria, per cui il “…Giudice non può fare a meno di richiamare il forte monito che gli è giunto dal Legislatore, in punto di corretta applicazione dell'onere della prova; infatti con la novella introdotta dall'art.6 L.130/22 è stato aggiunto all'articolo 7 del DLGS 546/92, il comma 5 bis […]” , non potendo che far soccombere l’Agenzia che “…non ha adempiuto all'onere della prova che Le incombeva...”(Corte di Giustizia Tributaria dell’Emilia-Romagna, sentenza n. 293 del 2022).

La chiarezza e immediatezza delle nuove norme confermano questa conclusione. Non solo nel primo, lapidario, periodo. E’ proseguendo infatti che ci si imbatte nell’obbligo, per il giudice, di fondare “la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio” e di annullare “l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni”. 

E’ evidente la volontà del legislatore di sollecitare l’Amministrazione a procurare una piena dimostrazione giudiziale della fondatezza dei rilievi contenuti nell’atto impositivo e, al contempo, di porre un chiaro monito in capo al giudice, per far sì decida sulla base di quando dedotto e provato dall’Erario, senza poter muovere alcun intervento sostitutivo o suppletivo della lacuna istruttoria di una ( o entrambe) le parti.


Solo accedendo a questa teoria interpretativa si potrebbe affermare che il legislatore avrebbe in tal senso colto l’opportunità della riforma in tema di giustizia tributaria per porre un freno definitivo a quegli orientamenti giurisprudenziali, del tutto svincolati dal dettato normativo, che avevano garantito all’Amministrazione di contare su favorevoli meccanismi presuntivi. E d’altro canto, in questo modo si recupera, di contro, l’idea per cui i presupposti del provvedimento impugnato, salvo specifica inversione dell’onere probatorio legislativamente stabilita, devono sempre essere forniti dall’Agenzia.

Un esempio, su tutti, sovviene a questi fini e rimarca il portato innovativo della disposizione. Intendiamo fare riferimento alla presunzione di distribuzione ai soci di società di capitali degli utili extracontabili ottenuti, discendente dalla semplice natura ristretta della compagine sociale. Ecco che la nuova norma potrebbe porre un freno a orientamenti di questo genere.


Un’ultima considerazione. La regola di riparto dell’onere probatorio interviene nel momento in cui gli elementi a disposizione della Corte non siano sufficienti per formulare un giudizio attendibile in punto di verità dei fatti. Il potere assegnato al giudice dal primo comma dello stesso art. 7, che gli garantisce di istruire autonomamente il processo, seppur nei limiti dei fatti dedotti dalle parti, deve interpretativamente rivisto. Nel combinato disposto tra comma primo e comma quinto bis risiede l’ulteriore novità: i poteri assegnati al giudice in funzione integrativa degli elementi in giudizio e di obiettiva incertezza ed indisponibilità non possono in ogni caso supplire alle insufficienze probatorie dell’Amministrazione finanziaria. Il recente intervento normativo la rende l’unico soggetto onerato e capace di dimostrare la fondatezza della propria pretesa.

Ed è quello che noi avvocati tributaristi di Studio Sèla’ abbiamo sempre affermato.

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