Il Talento Non Indossa il Numero Dieci: La Libertà di Emergere Oltre le Etichette e i Ruoli Predefiniti
Non tutti i talenti portano il numero dieci, ma alcuni lo fanno credere. C’è chi è stato un cacciatore di sogni, arrivato su un cavallo bianco a vendicare i torti di una nazione ferita e poi quelli di una città dimenticata, facendosi portavoce di una rivincita collettiva. Il più grande individualista, ma anche il più grande uomo squadra. Un genio capace di cambiare il corso di una partita con un solo gesto, ma con un’umanità fatta di carne, rabbia, luce e ombra. Aveva placche e bulloni nelle caviglie, occhi che vedevano oltre l’ordinario e un cuore in fiamme che non smetteva mai di battere per una causa più grande.
Il suo talento non risiedeva solo nella tecnica sopraffina, ma nella capacità di trasformare ogni limite in una possibilità e ogni sconfitta in una rinascita. Non era tanto in ciò che faceva, ma nel modo in cui lo faceva: con passione feroce, straordinaria vulnerabilità e un’umanità che superava ogni schema. Era il simbolo di un talento che non si misura con i numeri, che non vive solo di trofei, ma che trova la sua forza nell’autenticità e nella capacità di essere un faro per chiunque lo osservi. Perché il talento vero non è clamore, ma la forza invisibile di ciò che si è.
Ed è qui che entriamo nel cuore del talento: un concetto spesso frainteso, ma incredibilmente prezioso. La parola stessa ha origini profonde e affascinanti. Anticamente, "talento" era una misura di peso, una moneta preziosa, e la parabola dei talenti nel Vangelo di Matteo lo trasforma in un simbolo immateriale, ma altrettanto ricco: un dono innato, unico, che ognuno di noi riceve e che è chiamato a far fruttare. Questo dono non si esaurisce con l’uso, anzi, si alimenta. È una forza naturale che ci spinge verso ciò che siamo destinati a fare, verso ciò che ci fa sentire vivi.
Come sottolinea la Kellogg School of Management, il talento è una propensione, un’attitudine che guida le nostre scelte, che si manifesta in ciò che ci riesce bene e ci dà energia. Operare secondo il proprio talento non solo produce risultati migliori, ma ci fa sentire in sintonia con noi stessi. Tuttavia, non sempre trova spazio per emergere nei ruoli lavorativi o nelle aspettative sociali. Spesso fiorisce altrove: in un hobby, in un legame familiare, nel volontariato. È lì che, liberi dalle pressioni, lasciamo che il talento si esprima.
Questo ci porta al concetto di multipotenzialità, analizzato da Emilie Wapnick. Essere multipotenziale significa non essere confinati in una sola dimensione, ma avere la curiosità e la capacità di sperimentare ambiti diversi. Il talento non si limita a una sola espressione, ma si adatta, evolve, trova nuove strade per manifestarsi. Wapnick ha descritto questa poliedricità come un valore straordinario, dimostrando che non esiste un unico percorso verso la realizzazione, ma molteplici possibilità, tutte valide. Essere multipotenziale significa accettare questa ricchezza e lasciare che il talento si esprima in modi inaspettati.
Non è una competenza tecnica, ma spesso si traduce in competenze, siano esse tecniche o trasversali. È una predisposizione cognitiva ed emotiva che si manifesta in capacità di ascoltare, di creare connessioni, di apprendere rapidamente. Come osserva William Kahn con il concetto di "preferred self", il talento si esprime al meglio quando ci sentiamo autentici e pienamente noi stessi. Ma il talento è anche vulnerabilità. Esprimerlo significa spesso sentirsi esposti, ma è proprio in questa vulnerabilità che risiede la sua forza più autentica. È il "come" facciamo le cose, il tratto distintivo che emerge nei nostri comportamenti e che riflette la nostra essenza.
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Può rimanere nascosto. Può non trovare il contesto giusto per emergere, restando confinato in un ruolo o un contesto privato. Quando ciò accade, ci priviamo della possibilità di portare al mondo il nostro "io preferito", la versione più autentica di noi stessi. Ma quando trova spazio, genera abbondanza: non solo risultati migliori, ma anche motivazione, proattività e connessioni più profonde con gli altri.
Come ci insegna la Kellogg School of Management, i tratti caratteriali che accompagnano il talento, come l’essere affettuosi, razionali o organizzati, sono indicatori della sua presenza.
Il talento vero non ha bisogno di numeri iconici né di riflettori puntati. Vive nella capacità di trasformare ogni limite in un trampolino, ogni ostacolo in un’opportunità. È una forza silenziosa, che non si impone ma ispira, rendendo chi lo possiede un punto di riferimento per chiunque lo osservi. È il dono di chi, senza clamore, lascia un segno profondo semplicemente scegliendo di essere sé stesso.
Marianna Porcaro
Quality Control Packaging Team Leader presso Diageo
3 mesiHai descritto molto bene le varie sfaccettature del talento. Diversi spunti per non incasellare il talento in una sola definizione. Grazie degli spunti.
Direzione Amministrativa
3 mesiLa mia "nozione" di talento è di natura innatista ma certamente il suo palesarsi potrebbe anche essere questione di "incipit". Voglio dire che, in linea teorica, suppur presente/latente, potrebbe non essere mai sfociato in qualcosa di effettivamente tangibile (ma siamo nel campo delle sole ipotesi teoriche). Ciò detto è che quando esso diventa manifesto e consapevole in chi lo detiene, esso per poterlo rendere al massimo deve trasferirisi con una modalità assimilabile al benchmarking, anche in ambiti deiversi/lontani da quello che è nella sua natura ontologicamente precisa. Ecco che con questa capacità di trasferimento si riesce da utilizzare il talento come metodica/paradigma che può travasarsi verso la propria chiave primaria di interpetazione degli accadimenti in quanto il "talento" è un sovrappiù per interpretare la propria realtà.
Producer - FilmMaker - Comunication - Storyteller - Artistic Director VITERBOshort -
3 mesiverissimo!