Il tempo del permanent capital è arrivato?
Quando Investcorp era ancora in partita per l'acquisizione del Milan (ora sembrerebbe rimasto come interessato il fondo RedBird) i rumors parlavano di un'operazione da 1,2 miliardi di euro, dei quali 800 milioni investiti sotto forma di permanent capital, cioè svincolati dal classico 5 + 5 anni tra holding period e dismissione.
È un semplice esempio ma è importante perché pone l'attenzione su un fattore sempre più cruciale per chi fa private equity: il tempo.
Il tempo interviene a vario titolo. C'è un tempo per vendere e uno per comprare. C'è il tempo della particolare e destabilizzante contingenza che stiamo vivendo, con le sue criticità (guerra, tassi, inflazione) che stanno già mettendo in seria crisi interi comparti industriali, fra i quali ad esempio il tech. E ci vuole sempre più tempo per creare valore, per portare avanti strategie industriali, per ingoiare e digerire ciò che mina la produttività.
Il tempo, tra le altre cose, non gioca a favore dei private equity perché li vincola in modo ben preciso, anche a tempo di guerra, quando invece ne servirebbe di più per pensare alle prossime mosse.
È per questo che non sorprenderebbe se in questi anni nascessero più fondi di permanent capital. Qualche società ha già scelto di intraprendere questa strada. Ad esempio negli Usa Sequoia Capital, tra i più importanti venture capital globali e investitore fra gli altri di Google, Zoom, Apple e Whatsapp, a fine 2021 ha annunciato di abbandonare del tutto la formula tradizionale del fondo chiuso e di instaurare una struttura di capitale permanente. La mossa comporterà commissioni aggiuntive per gli investitori ma darà a Sequoia la flessibilità di detenere partecipazioni in società tecnologiche e raccogliere i frutti per molto più tempo. Secondo Sequoia, gli investimenti non avranno più "date di scadenza".
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Sequoia non è certo il primo tra i fondi ad aver scelto questo approccio, c'è anche Blackstone, per fare un esempio. E ce ne sono anche in Italia. Ma il fatto che una realtà di 50 anni e con 80 miliardi di dollari di masse abbia del tutto abbandonato una formula usata da sempre è un ulteriore segnale che i tempi potrebbero essere maturi per un cambiamento che sia significativo.
Da un lato, infatti, per far crescere l'azienda - a maggior ragione se startup - tanto da rispettare le aspettative di rendimento occorrono molti più anni, se si decide di portare avanti una seria strategia industriale o di verticalizzarsi in specifici settori. Dall'altro la volatilità, le crisi e il calo dei multipli che inevitabilmente arriverà fanno pensare che l'essere svincolati dalla contingenza non possa che essere positivo per il portafoglio.
Il permanent, se non quotato, non risolve totalmente il problema dell'illiquidità ma consente l'uscita degli investitori tramite finestre ben precise che possono essere anche più brevi di dieci anni. Nel caso di Sequoia, gli investitori del Sequoia Fund potranno riscattare le azioni pubbliche due volte l'anno, dopo un periodo iniziale di blocco di due anni.
È dunque arrivato il tempo del permanent capital? Le condizioni ci sono, la risposta potrà darla il mercato e la velocità di reazione. Di certo questo cambiamento va di pari passo con un altro trend dei private equity, cioè la trasformazione in asset manager. Passaggio, questo, già avvenuto negli Usa ma ancora poco nel piccolo e giovane mercato italiano. Questi fondi aperti, progettati per far crescere le attività senza la pressione di una costante raccolta di fondi, hanno infatti aiutato le società di buyout statunitensi a diventare gestori patrimoniali tentacolari che si occupano di tutto, dai prestiti agli investimenti in biotecnologie, grazie a una base ampia e solida di investitori. E probabilmente saranno proprio questi ultimi a decretare lo sviluppo - o no - di strumenti simili.
morelli@dealflower.it