IL VUOTO CHE AL SOLITO HO DI DENTRO
Non so cosa resterà di tutto questo. So però cosa vorrei non rimanesse. So cosa vorrei non portarmi dietro, in quello che saremo.
Non vorrei portarmi dietro la retorica.
La retorica dell' #andratuttobene e dei suoi fratelli di hashtag.
La retorica del Tricolore, troppe volte prima dimenticato, e adesso proiettato su qualunque superficie liscia.
La retorica dell'inno nazionale rispolverato solo ai mondiali di calcio, e ora imparato a memoria ed eletto miglior colonna sonora per i pomeriggi sui balconi.
La retorica dei tramonti e delle albe, fenomeni celesti celebrati più della cometa di Halley.
La retorica del pane e del lievito madre, noi popolo che un po' di celiachia non si nega a nessuno.
La retorica degli arcobaleni, che hanno ormai di gran lunga superato gli unicorni nei disegni dei bambini.
Ma più di tutte, la retorica del cambiamento.
Retorica, certo perché per realizzare davvero un cambiamento bisogna esserci predisposti. Bisogna averne dentro una scintilla, un'idea, un barlume. Non si cambia a comando, o per forza, sotto minaccia.
Per questo la paura non è il migliore degli inneschi.
E l'angoscia, la disperazione, la solitudine nemmeno. Altrimenti quello che si diventa è una proiezione, un'ombra, non è la realizzazione di un bisogno, né di un desiderio profondo, e tantomeno di un sogno. È una reazione, una risposta, ed è, alle volte, sopravvivenza.
E noi, in questo cambiamento di cui ci dichiaravamo certi, abbiamo magari davvero creduto e ad un certo punto lo abbiamo anche sbandierato, sì, ma in fondo senza troppo orgoglio. Come un premio di consolazione, come arrivare secondi a Sanremo, come una vittoria di Pirro. Qualcosa di cui essere fieri, ma non fierissimi. Convinti, ma con moderazione.
Come quando sorridi con la bocca ma non con gli occhi.
Perché il cambiamento non prevede mezze misure. O c'è o non c'è. Non ce n'è un po'.
Per questo non può avvenire se ci si chiude, non solo in casa giustificati dal virus, ma anche dentro se stessi, dimenticando progetti, sogni, e persone anche. Decidere di rinunciare ad un desiderio da inseguire, da costruire, da pretendere, da realizzare, ci abbrutisce.
Perché viviamo il malumore, dimentichiamo la generosità, la gentilezza, che anzi, ci urtano addirittura, anche quando sono gli altri a praticarle nei nostri confronti, perdiamo la nobiltà d'animo e quella luce che ci rende speciali e perfetti.
Perché pochi sono luminosi come coloro i quali decidono di dare seguito ad un desiderio.
Senza retorica, ma sinceramente e con gioia.
Per questo chi non è cambiato è perché non lo ha scelto.
Perché è la scelta l'innesco giusto.
Perché quando si sceglie si inseguono desideri, si nutrono sentimenti, si raccontano emozioni, si realizzano sogni, si ritrova quello che siamo stati, si disegna quello che vogliamo essere, si parla attraverso l'anima.
Scegliere di realizzare, è questa la cosa giusta, perché un desiderio che rimane tale sarà solo frustrazione e dolore.
Ma per cambiare davvero bisogna trovare il coraggio, e la forza. Perché altrimenti si rimane così, immobili, a cullare le nostre migliori intenzioni e a scegliere tante belle parole con le quali raccontiamo, a noi stessi e agli altri, desideri e bisogni, e sogni.
E a fissare il vuoto che, con quelle stesse belle parole, affannosamente ma forse invano proviamo a riempire.
RispondiInoltra
Psichiatra Psicoterapeuta, Dottore di Ricerca (Ph.D.) in Psicoterapia, Antropologo Culturale
4 anniDopo tanta nebbia a una a una si svelano le stelle Respiro il fresco che mi lascia il colore del cielo Mi riconosco immagine passeggera Presa in un giro Immortale. Sereno - Giuseppe Ungaretti
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