La bugia dei "mi piace"...
Più mi guardo in giro e più mi accorgo che la mia professione (quella della comunicazione, mediante articoli, foto o video) sta inesorabilmente cambiando. L'impoverimento di contenuti, di spessore e di consapevolezza sta pian piano facendo spazio ad un mare oleoso e puzzolente di improvvisazione. Tuttavia, il punto è che se da una parte tale "improvvisazione" duole a noi professionisti - ché magari abbiamo studiato, sofferto, rinunciato e dato l'anima per una vita al fine di riuscire meglio nella attività più amata - dall'altra bisogna inevitabilmente considerare che a domanda corrisponde offerta, e che cioè il pubblico non vuole altro che questo.
Quando ne parlo nei miei corsi li definisco BIAS. Se fate una ricerca su Wikipedia, scoprite che il "bias cognitivo" è “un giudizio (o un pregiudizio), non necessariamente corrispondente all'evidenza, sviluppato sulla base dell'interpretazione delle informazioni in possesso, anche se non logicamente o semanticamente connesse tra loro, che porta dunque ad un errore di valutazione o a mancanza". Il Bias cognitivo a cui faccio riferimento oggi è quello a cui viene spesso associato il problema del "framing" ossia quello della costruzione del proprio "frammento", o meglio la finestra immaginaria, il cassetto della nostra anima e della nostra memoria, in cui cataloghiamo le informazioni mediante le quali valutiamo tutto ciò che è esterno a noi.
Ma dunque, se da una parte valutiamo sommariamente, e magari con preconcetti, ciò che ci capita quotidianamente, dall'altro etichettiamo come giusto o sbagliato, utile o inutile, bello o brutto, qualcosa che fa capo quasi esclusivamente al nostro personale modello di realtà. E' come dire che, nella stragrande maggioranza dei casi, le nostre valutazioni possono essere fallaci.
Ma il cervello umano non è stupido, e che cosa fa? Per evitare di sbagliare, magari scegliendo con coraggio, e dunque rischiando, si uniforma. Opta cioè per il cosiddetto "effetto carrozzone", il "bandwagon effect", secondo il quale ognuno di noi compie azioni o crede in alcune cose solo perché la maggior parte della gente crede o fa quelle stesse cose.
Ed ecco il punto. Queste regole sono applicabili ad ogni cosa. In altri termini, oggi non scegliamo quasi mai realmente con la consapevolezza che quella nostra scelta sia la più giusta. Perciò riteniamo che una persona sia valida per il numero di "amici" virtuali che ha, oppure che la fotografia di un fotografo sia bella perché ha ricevuto molti "mi piace". Raramente ci soffermiamo a valutare, a soppesare e a ragionare su ciò che vediamo o ascoltiamo.
E proprio negli ultimi giorni sto vedendo materiale fotografico che farebbe rabbrividire il peggiore dei vignettisti manga giapponesi, e che invece porta a casa centinaia di "mi piace" sui social. Personaggi che si autodefiniscono "fotografi professionisti" e che non hanno evidentemente la benché minima cognizione della luce, delle ombre, e soprattutto della veridicità che uno scatto fotografico deve restituire.
Henry Cartier Bresson sostenne che "la fotografia è logica". Ma si sa, che si tratti di Facebook, di Instagram o altri, poche cose sono bugiarde come i feedback sui social.
Ne parleremo nella kermesse di Hospitality, a Riva del Garda, con l'amico Alessandro Augier, nel focus sul Visual Marketing, il 2 febbraio.
Gabriele Cucolo