La crisi dei wearable è la crisi del nostro modo di pensare la tecnologia
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Ho iniziato a lavorare nel 1998, dopo essermi laureato con una tesi sulle strategie di visibilità dei media su internet e animato da sana passione per la nascente rivoluzione del web. Una passione che coltivo tuttora. Guardavo con ammirazione e aspettativa le proiezioni delle grandi società di consulenza sulla imminente esplosione di quasi qualsiasi innovazione tecnologica. Ho compreso molto velocemente che spesso i dati presentati non erano… ehm… del tutto solidi. Periodicamente mi aggiorno sulle classifiche delle peggiori previsioni e una delle mie preferite è sempre quella di Steve Jobs che nel 2003 disse a Rolling Stone: “Il modello di distribuzione della musica basato sull’abbonamento è destinato al fallimento”. Non male per quello che è ormai “il” modello di fruizione dei contenuti, da Spotify a Netflix.
Il rischio di non interpretare correttamente le tendenze ed elaborare delle previsioni che poi si rivelano molto lontane dalla realtà è sempre in agguato, soprattutto quando ci si occupa di fenomeni ancora immaturi e che, inevitabilmente, generano poi dei grafici con crescite esponenziali.
Il mercato dei wearable è un ottimo esempio. Credo che tutto abbia avuto inizio nel 2013 con i Google Glass che sono stati presentati con specifiche tecniche mirabolanti e con la promessa (certezza?) che avrebbero cambiato radicalmente il nostro modo di vivere e di interagire, consentendoci una nuova esperienza immersiva ed arricchita nella realtà. Lo chef Jamie Oliver li ha usati per cucinare e fornire una sorta di soggettiva del suo lavoro (una cosa che oggi si fa con una banale action cam), il blogger Robert Scoble li ha indossati ininterrottamente e da allora molti si sono lanciati in previsioni di crescite molto importanti che inevitabilmente sono state disattese fino a far dire ad Harvard Business Review: “I Google Glass non hanno avuto successo perché non erano cool”. I Google Glass sono stati ritirati dal mercato e oggi il loro utilizzo è confinato a poche applicazioni molto specializzate, come la chirurgia e la manutenzione degli aerei.
Sono molte le fonti che indicano una fase di plateau o addirittura discendente degli smartwatch e degli altri wearable. IDC, ad esempio, si è rimangiata in modo trasparente buona parte delle sue previsioni. La stima iniziale era che gli smartwatch sarebbero diventati un prodotto di massa entro il 2018. Invece, Jitesh Ubrani, Senior Research Analyst per i dispositivi mobile, ha poi corretto il tiro: “Abbiamo recentemente rivisto le stime perché non pensiamo che questo accadrà”.
Certo, rimane il recente sorpasso delle vendite di smartwatch sugli orologi tradizionali svizzeri, i 12 milioni di iWatch venduti da Apple nel 2015 e un mercato asiatico in perenne crescita. Secondo GfK: “Il continente asiatico […] con il suo mercato, rappresenta circa il 37% delle vendite dello scorso anno, mentre, andando a dare uno sguardo più approfondito, già in questi primi mesi del 2016 la Cina evidenzia un aumento delle vendite di questi dispositivi pari a circa l’80%”.
Nonostante questi dati, tuttavia, molti, tra cui l’influente CNET, stanno già analizzando i motivi per cui gli smartwatch faticano a far breccia nel cuore dei consumatori. In diverse di queste analisi al primo posto c’è, semplicemente, l’osservazione che non danno abbastanza valore a chi li indossa ed è un commento che condivido.
Le app per smartwatch sono, in fondo, ancora poche e, soprattutto, non sembrano dare un reale vantaggio nella vita di tutti i giorni. I piccoli gesti che compiamo con i nostri smartphone, come trovare un percorso con il navigatore, vedere gli appuntamenti o leggere i messaggi semplicemente vengono compiuti altrettanto efficacemente in modo tradizionale. Se a questo aggiungiamo il fatto che gli smartwatch, con i loro alert, acuiscono il sempre più diffuso fastidio per le continue interruzioni il quadro è completo. Persino dei veri nerd come i blogger di Tech Insider lo sottolineano: “Il problema è che ricevo troppe notifiche, specialmente dalle email”.
Secondo Microsoft prendere appunti, un’azione che molti di noi fanno ormai con tablet o pc, è più efficace se fatto con carta e penna. Personalmente non ne sono convinto, ma è un ulteriore segnale che fa riflettere sul rapporto tra noi e la pervasività della tecnologia. Quando ci spingiamo troppo in là? Il rallentamento del mercato dei wearable è determinato dal fatto che, in fondo, non ci servono veramente?
Il filosofo Umberto Galimberti sostiene da tempo che “A regolare il procedimento tecnico-scientifico è il principio che ‘si deve fare tutto ciò che si può fare’ in base alle conoscenze acquisite”. Secondo questo punto di vista, la tecnologia ci offre giocoforza infinite possibilità cui il marketing, sempre per sua natura, cerca altrettante occasioni di consumo. Tuttavia, queste, alla fine, vengono agìte dai consumatori solo se viene riconosciuta la capacità di generare un impatto positivo.
I wearable non hanno ancora dimostrato di saper generare questo impatto nelle nostre vite. E allora come ci regoliamo? Di nuovo Umberto Galimberti: “Non si può impedire alla scienza che può di non fare ciò che può. Il problema allora diventa quello della “misura” che non va cercata nei principi formulati quando la natura era immodificabile, ma in quella indicazione aristotelica che, in assenza di principi generali, consente di prendere decisioni esaminando caso per caso. Aristotele chiama questa capacità “phronesis”, che siamo soliti tradurre con “saggezza”, “prudenza”, e la eleva a principio regolativo della prassi”.
No, il mercato dei wearable non sta per esplodere e sì, i dati vanno guardati con “phronesis”.
Il mio post sulla digital disruption: “Ma, alla fine, cos’è ‘sta digital disruption?”
Parliamoci: davide@davidezane.com