Il contratto di lavoro: oltre la prospettiva giuridica
Oggi parlerò di qualcosa che ho constatato da me, durante il mio (più che giovane) percorso professionale. Avere avuto più di una esperienza lavorativa nonostante abbia finito l'università nei tempi stabiliti, mi ha permesso di affacciarmi con largo anticipo su un mondo e su una serie di dinamiche che non sono proprio quelle di un'aula universitaria.
Le transazioni di lavoro non possono ridursi a meri scambi di tipo economico. Ovviamente quella è una parte fondamentale, ma se non è affiancata da altre tipologie di relazione rischia di creare delle dinamiche tutt'altro che salutari per l'azienda e per il lavoratore. Ogni transazione di lavoro ha senz'altro una sua dimensione economica, ma anche una politica e ancora psicologica.
Ecco che quando si parla di lavoro, di contratto, bisogna switchare quest'ultimo e calarsi a fondo su una sua accezione più simbolica, ovvero il contratto psicologico. Questo tipo di contratto è una sorta di obbligazione tacita tra il lavoratore e il datore di lavoro. È la base sulla quale costruire la loro relazione, racchiude tutti quegli elementi che non possono comparire nel contratto formale scritto, per esempio fiducia, spirito di collaborazione, condivisione degli obiettivi, carriera ecc.
Da qui ne scaturisce una dinamica quasi naturale. Quando un azienda viola il contratto psicologico e tutto ciò che esso implica, ecco che la soddisfazione del lavoratore cala a picco e di conseguenza anche il suo commitment. Questa rottura porta a una serie di dinamiche organizzative che minano il naturale andamento dell'azienda, ovvero l'aumento dell'assenteismo, del turnover e una diminuzione complessiva della performance. Al contrario, quando un azienda fa leva su tutta queste serie di variabili si creano delle dinamiche del tutto opposte: la soddisfazione aumenta e così anche l'impegno, aumentando i livelli di performance e l'identificazione organizzativa.