La Leadership non è quella cosa che pensavamo
Tra nuovi framework organizzativi, smart working e Covid, ci stiamo finalmente accorgendo che abbiamo sempre pensato alla leadership in modo inadeguato, e che forse è giunto il tempo di rivedere il nostro modo di concepirla.
di Camillo Sperzagni
Esistono davvero tanti paradigmi di leadership: uno dei più antichi -quello del leader carismatico, tutt’ora ben quotato- risale a più di cento anni fa, coi lavori di Max Weber (1919), che parlava però di leader politici. Dagli anni ’60 del secolo scorso poi abbiamo assistito a un proliferare di modelli, come la Leadership transazionale (E.Hollander),la Leadership situazionale (P.Hersey, K.Blanchard), la Leadership generativa (R.Dilts), la Leadership trasformazionale (J.V.Downton).
Quasi tutti questi modelli condividono due capisaldi: il primo è che scopo della leadership sia quello di sviluppare una guida capace di ottenere il massimo dai collaboratori in termini di motivazione e performance; il secondo è una descrizione accurata e completa della “personalità del leader”, con le sue abilità relazionali, strategiche e di visione.
L’immeritata fortuna del Leader carismatico
E’ peraltro singolare che all’interno di questo paradigma una delle caratteristiche più di successo sia stata quella del carisma, che alla prova dei fatti ha invece dimostrato di essere una fonte continua di problemi causando contrapposizioni, rotture, decisioni sbagliate, demotivazione. Tra i critici più decisi della Leadership Carismatica c’è lo psicologo Tomas Chamorro-Premuzic, Professore di Business Psychology presso London University College e Columbia University, Chief Talent Scientist di Manpower Group.
Nel suo libro più recente – Perché tanti uomini incompetenti diventano leader- non usa mezzi termini, puntando l’indice sui sistemi di selezione che sono a monte della promozione di persone inadatte a posizioni di comando. “Quando gli uomini vengono selezionati per occupare posizione di vertice”, afferma l’autore,”gli stessi aspetti che consentirebbero di predire il loro fallimento sono comunemente scambiati per indicatori di potenziale o di talento per la leadership e, come tali, persino esaltati. Ad esempio, caratteristiche come l’eccessiva fiducia in sé stessi e il narcisismo dovrebbero essere interpretate come segnali di pericolo. Invece, ci spingono a dire: “Ah, che tipo carismatico! Ha la stoffa del leader.”
Insomma, i nostri sistemi di selezione esaltano “le caratteristiche del maschio alfa e cioè il protagonismo rispetto all’umiltà, l’estroversione rispetto alla sobrietà, la voce grossa rispetto all’understatement, l’azzardo rispetto alla saggezza”.
Un lascito antropologico
Il rischio? Queste caratteristiche, se sono utili a imporsi come capobranco, sono del tutto inadatte per guidare un paese, un’impresa o un team in un’organizzazione. Il guaio è che i nostri tratti evolutivi si predispongono alla fascinazione da parte di individui che sarebbero stati idonei a comandarci in contesti molto differenti da quelli attuali: piccoli nuclei di persone in un mondo selvaggio, dove il gruppo era tutto, le decisioni drastiche ma autoevidenti, la forza fisica decisiva, l’unità incondizionata un fattore di sopravvivenza.
Lo psicologo Heinz Kohut (1976) peraltro descrive i leader carismatici come persone che si sono profondamente identificate con il loro sé grandioso o super ego idealizzato. Ne conseguono una dogmatica sicurezza di sé e mancanza di empatia. “Questi soggetti pare abbiano sofferto, durante l’infanzia, a causa della mancanza o la poca prevedibilità delle risposte empatiche delle figure d’accudimento e tutto ciò li ha poi resi estremamente empatici verso sé stessi e i loro personali bisogni, pronti ad utilizzare gli altri per soddisfarli.“
Dunque questa tipologia di leadership tende a porre il proprio benessere e i propri obiettivi davanti a quelli del gruppo. E questo è ovviamente un grosso problema, perché oggi un vero leader dovrebbe prestare attenzione prima agli interessi dell’organizzazione che ai propri, ed essere un supporto delle persone con cui si interfaccia.
Ma la leadership è davvero una capacità del leader?
Comunemente la risposta -errata- a questa domanda è un bel sì. Persino modelli molto recenti tentano di spiegare la leadership nei termini di qualità personali possedute da un individuo, e anche i sistemi di assessment più in auge funzionano sulla base di questo presupposto. Siamo ancora influenzati da una modalità di pensiero vecchia di almeno un secolo: credere che le qualità espresse da una persona siano manifestazioni di una sua “personalità“. Non è vero: come ha dimostrato Gregory Bateson (1972) qualunque qualità è espressione di una relazione tra un soggetto e certi altri soggetti in un contesto specifico. La qualità emerge dal processo, non dall’individuo. Dunque non “tratti della personalità“, ma circolarità di motivazioni e ruoli sistemici tra soggetti diversi. La leadership non fa eccezione: è un processo sistemico relazionale
• tra un individuo e un gruppo,
• riferito a un certo contesto,
• che si stabilisce e si mantiene attraverso una sequenza di scambi comunicativi.
Perciò sviluppare leadership in una persona non comporta la necessità di farne un essere superiore, ma significa darle la consapevolezza e le competenze per co-costruire e co-allineare questo processo contestuale tra individui differenti in cui ognuno deve dare il suo consenso. In sintesi, si è sempre pensato alla leadership come l’espressione di un individuo: ora è necessario abituarsi a pensarla come una proprietà di rete emergente.
Servant Leadership, una radicale rottura di schema.
Il pilastro storico dei vari tipi di leadership è costituito dall’idea vista prima, che l’obiettivo del leader sia quello di ottenere il massimo dai collaboratori in termini di motivazione e performance. Un corollario implicito di questo pensiero è la funzione di guida da parte del leader: funzione che tradizionalmente è stata (e spesso è tutt’ora) soddisfatta tramite un controllo diretto e puntuale sull’operato dei collaboratori. Non è un caso che il ricorso al lavoro a distanza -forzato dal Covid, almeno dalle nostre parti- abbia spesso mandato in crisi il ruolo di così tanti manager. Ascoltando i racconti di molti “smart workers” -e le virgolette qui sono d’obbligo- affiorano comportamenti a tratti paranoidi dei loro capi che cercano di rimediare ossessivamente a un loro senso di perdita di controllo moltiplicando i contatti on line ed esigendo report quotidiani dettagliati ora per ora. Naturalmente lo smart working ha poco a che fare con simili comportamenti; ma d’altra parte la cultura della fiducia, almeno da noi, sta solo muovendo i primi passi. Uno dei più promettenti è il costituirsi di team autorganizzati come quelli che stanno alla base delle organizzazioni tipo Agile, anche se va detto che nel nostro Paese le aziende veramente Agile sono ancora davvero poche. Ma comunque le esperienze dei primi team autorganizzati hanno se non altro il merito di portare alla ribalta l’esigenza di un modello di leadership nettamente diverso da tutti quelli che l’hanno preceduto. Una base di partenza c’è, ed è il concetto di Servant leadership (Robert K.Greenleaf, 1970). Per Greenleaf il leader-servitore “è prima un inserviente. Nasce con la tendenza naturale di una persona che vuole servire, servire prima”. Greenleaf non era psicologo né consulente: in origine era un ingegnere di AT&T che si occupava di formazione interna. Forse anche per questo è stato più sullo sfondo rispetto agli altri paradigmi dedicati alla figura del leader; o forse la cultura organizzativa non era in generale ancora pronta per questo paradigma. Fatto sta che il modello del Servant leader, cinquant’anni dopo i suoi primi passi, sembra quello più coerente con la natura sistemica del processo di leadership, portando il focus dell’azione dalla performance alla cura del team. Creare le condizioni migliori affinché il team possa esprimere il suo potenziale: questo diventa l’obiettivo personale e generale del leader. L’incontro tra visione di sistema e Servant leadership comporta una rivoluzione copernicana rispetto all’eroica figura del leader condottiero, visionario e carismatico che ha imperversato per anni. Ed è bene che sia così, perché i tempi lo richiedono.
Founder & CEO EXECO | Aiuto le persone e le aziende a lavorare felici | Partner associato Scotwork
4 anniBellissimo articolo ( anche se sei un concorrente !!😀) grazie Camillo !!
TRUST BUILDER. Ideatore di @beHippo e dell'algoritmo della FIDUCIA. Professore aggiunto presso Fondazione ITS Energia Piemonte. Attraverso la FIDUCIA cambieremo il mondo
4 anniComplimenti Camillo per l’articolo che in poche righe delinea in maniera chiara cosa possa significare la Leadeship
Project Manager, PMO
4 anniGiulia Rosi
Founder @ VARIACTION - change consulting & grounding | Business & Life Coaching | Lego®Serious Play® facilitation | Agile Transformation
4 annigrazie del tuo contributo Camillo. Aggiungo qualche considerazione: - se il carisma deriva dal saper fare e dalla voglia di coinvolgersi in prima persona per e con il suo team, per attivare quella sicurezza psicologica necessaria all'autorganizzazione allora io preferirei un capo carismatico, quasi un condottieri di vecchi tempi a cui fare riferimento, se il carisma è più da fascinazione allora sono d'accordo con te, fa più danni che altro (e lo dice un narcisista) - la servant leadership è stata sposata da scrum e da agile, inizialmente, creando anche qualche confusione proprio sul concetto di "servant" tanto che adesso per esempio nella nuova scrum guide si è passati per lo scrum master da servant leader a leader who serve spostando l'attenzione da uno stato a delle azioni. Mi chiedevo proprio giorni fa, come mai abbiamo bisogno di definire il leader e le sue caratteristiche? Se, come dici, e ne sono convinto anche io, la leadership non è una caratteristica o dote personale, ma si esprime in un sistema, complesso, allora forse ci dovremmo interrogare sul sistemi "generativi di leadeship" e non su leader e su quali caratteristiche hanno. Nel secondo caso stiamo trattando un sistema complesso, non lineare per definizione, come complicato proporzionale e pure replicabile con la spiacevole conseguenza che non riesco a formare dei leader.
Docente di italiano, storia e inglese
4 anniMolto interessante Camillo. E' in parte ciò che dice Calenda dicendo che votiamo persone che parlano alla pancia e quelle che sono capaci di amministrare la cosa pubblica li chiamiamo Tecnici. Dimenticando che il termine politico significa colui che si occupa della cosa pubblica