La nuova normalità: giorni di un futuro passato?
Il Covid e la relativa pandemia hanno segnato profondamente i nostri tempi, definendo, in maniera netta, un “prima” (ormai troppo lontano) e un “dopo” (ancora tutto da comprendere).
Persone e organizzazioni, quindi, si sono ritrovate, nel corso dell’anno I d.C. (dopo Covid), a dover mutare il proprio modus operandi et pensandi, al fine di rispondere, in maniera responsabile, a questa nuova normalità.
Effetto immediato è stato, oltre ad una generale propensione verso la cucina homemade, una significativa accelerata verso un approccio digital first, che, ormai da anni, troneggia sui diversi mercati. Come evidenziato da una ricerca curata da Salesforce, quasi il 90% delle aziende italiane ha accelerato il proprio processo di digital trasformation, pur confermando, nel 60% dei casi, che il top management è ancora alla ricerca della tecnologia migliore per il proprio business.
Tendenza interessante che sta emergendo, a differenza delle logiche “tutto e subito”, che hanno caratterizzato soprattutto gli ultimi due decenni, è una maggiore propensione ad adottare long term business strategy, che assicurano maggiore stabilità mentre si naviga in mari tempestosi. Da questo punto di vista, le hi tech company fanno scuola; Amazon e Netflix, ad esempio, hanno visto quadruplicato il proprio valore azionario negli ultimi quindici anni, pur racimolando profitti modesti in itinere. È evidente, quindi, che gli stakeholder interni ed esterni, a fronte di un prodotto/servizio o progetto di valore, sono disposti a rinunciare a vantaggi correnti.
Di contro, però, non è possibile non vedere delle nubi grigie nel cielo limpido della digitalizzazione. Due, a mio parere, i fattori di maggior interesse.
Un eccessivo utilizzo del paradigma 2.0, infatti, rischia di dare vita a quello che definirei un “fordismo tecnologico”, in barba alle conquiste socio – psicologiche che vedono nel lavoratore una persona, prima ancora che uno strumento di business. Esattamente come accadeva lungo le linee di produzione della famosa (e famigerata) Ford T Nera e come ben raccontato da Charlie Chaplin nel film “Tempi Moderni”, infatti, non è utopica la deriva della risorsa umana in mera estensione “vivente” delle soluzioni tecnologiche adottate, del tutto annichilito sotto il peso decisionale di dati e algoritmi. Charlie Chaplin.
Ulteriore rischio da non sottovalutare è legato al massiccio utilizzo (trend dell’ultimo quinquennio) di AI e machine learning nel people management. Nulla questio nel loro impiego in ambito hard; maggiori perplessità, semmai, sorgono nel caso in cui tali tecnologie vengono utilizzate (spesso in via esclusiva) nei processi di recruiting e di talent management. Può una macchina apprendere come valutare aspetti intangibili dell’uomo, non legati a titoli accademici o carriera professionale, quanto piuttosto a tratti caratteriali e motivazionali? Si apre qui un dilemma (quasi) filosofico: in che modo tali tecnologie si pongono nei confronti dell’apprendimento etico e morale? I sottesi algoritmi di apprendimento devono essere programmati in termini utilitaristici (costi – benefici) o kantiani (esistono valori imprescindibili)? E’ possibile trasformare in numeri binari ed esponenziali tensioni ed emozioni, principi e valori umani, linea sottile (molto spesso) che separa la bravura dal talento, il candidato medio dall’optimum? Il dibattito è ancora aperto (e ben lontano dal concludersi), con UE e comunità internazionale già all’opera per definire un trattato etico sull’impiego dell’intelligenza artificiale. Nell’attesa, non è possibile che sperare in un utilizzo coscienzioso e responsabile di tali tecnologie in tutti quei processi in cui il lavoratore, come uomo, non può che rimanere al centro. Quei processi in cui, proprio come l’ologramma del dott. Lanning, le tecnologie non possono (e potranno) che avere sempre risposte limitate.