La produzione che verrà
Nuovo Cinema Paradiso, 1988, Giuseppe Tornatore

La produzione che verrà

Ho appena recuperato l'incontro che c'è stato stamattina al Lido di Venezia sulla, cito il titolo, "produzione che verrà" (se vi interessa, lo trovate sui canali di Rai Cinema). Ecco, oltre all'intervento di Robert Bernocchi che, se non sbaglio, faceva parte di un altro slot e che ha messo insieme l'effettività della situazione e la concretezza dei dati, mi hanno colpito tre momenti particolari. Perché meno rigidi e decisamente più presenti a quella che è la realtà del nostro mercato.

Il primo - e li cito in ordine cronologico - è stato quello di Piera Detassis, che ha sottolineato con precisione uno dei grandi, grandissimi problemi della nostra industria: i film, anche quando sono validi, anche quando hanno un certo potenziale, vengono lasciati da soli. La comunicazione si attiva troppo tardi, a volte in evidente ritardo; e tutto quel lavoro che andrebbe fatto per coinvolgere - o almeno per informare - il pubblico perde la sua efficacia.

Già questo tema, per me, meriterebbe un panel a parte. E attenzione: un panel con interventi non solo dei produttori o delle alte istituzioni, ma pure degli esercenti, che spesso sono costretti a fare quello che possono con pochissimo, e del pubblico.

Poi c'è stato l'intervento di Nicola Maccanico, che ha detto chiaramente che Cinecittà è attiva, va bene e che è pronta ad accogliere nuove produzioni. Ha parlato di soldi, che sono il centro di diverse questioni, sia tecniche che industriali, e ha affermato una cosa che, secondo me, merita di essere ripetuta; la cito a memoria, non parola per parola: i soldi non sono tutto, ma diventano tutto quando non ci sono.

Manca una ridistribuzione delle risorse, e questo è palese. Alcune sale - e alcune zone - vanno benissimo. Altre malissimo. E parliamo di una percentuale minima contro una percentuale ben più grande: da una parte l'eccezione, e dall'altra la regola. E poi: si prova a ragionare meccanicamente, proteggendo con forza - per esempio - le finestre distributive e dimenticando - facendo finta di dimenticare, anzi - che non tutti i film vanno bene in sala. Bisogna, insomma, avere un approccio più pratico e attento al singolo caso - e pure questo andrebbe approfondito con gli esercenti.

Ultimo momento interessante, per quanto mi riguarda, è stato quello finale, di raccordo, tenuto da Francesco Rutelli. Ha ricordato la paura che il sistema italiano ha provato nei confronti delle piattaforme streaming quando sono arrivate per la prima volta nel nostro paese, ha ribadito che il cambiamento che è arrivato e che è stato in grado di imporsi è arrivato e si è imposto grazie all'esperienza; e ha introdotto un argomento che, per ora, continua a essere ignorato dalla maggioranza silenziosa degli addetti ai lavori. E cioè: con gli scioperi di Hollywood, parte dell'offerta delle sale e della tv (c'entra pure la tv, sì: attenzione) verrà a mancare; l'impatto di questa cosa si sentirà anche da noi, e mercati come quello italiano saranno chiamati - se vorranno e se ne avranno la forza - a farsi avanti e a provare a riempire questo vuoto. Innanzitutto sul territorio nazionale (come sarà, mi chiedo, la prossima estate senza due film come Barbie e Oppenheimer?). E successivamente, se siamo bravi, nel resto del mondo (dei registi italiani a Venezia chi, se c'è, può ambire a uno spazio importante nella distribuzione nord americana?).

Per tutti questi spunti, non c'è un'unica risposta. Quindi non voglio nemmeno provarci, qui, a trovare una formula magica per affrontarli contemporaneamente. Voglio però dire una cosa, e lo faccio ricollegandomi a un altro intervento, che ha fatto da introduzione a questo panel. Ed è l'intervento di Alberto Pasquale sulle produzioni indipendenti.

In Italia, negli ultimi anni, molte produzioni sono state acquisite da realtà internazionali. E i produttori indipendenti, così, si sono ridotti all'osso. (Per indipendenti intendo: produttori privati, non pubblici, e con risorse tutto sommato limitate).

Ma forse è proprio questa strada, quella più libera e creativa, una delle possibili soluzioni ai dubbi del presente - elencati qui sopra - e a quelli del futuro - di cui, qualche tempo fa, ho cercato di parlare.

Gli stessi Stati Uniti, ancora una volta, ci vengono in aiuto e ci mostrano che un approccio diverso, più attento e personale, può essere un ottimo modo per evitare - o per superare - confitti e incomprensioni. L'ha detto Adam Driver durante la conferenza stampa di Ferrari: siamo qui perché siamo riusciti a raggiungere un accordo con i sindacati. Perché le grosse realtà non sono in grado di farlo?

Di più, ed è un discorso a parte: nell'indipendenza che deriva dalle risorse limitate - che possono essere un ostacolo ma anche, appunto, uno slancio di libertà - si comunica meglio, più attivamente e con più originalità. Almeno, è così sulla carta. (Siamo in Italia, e tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare).

Dobbiamo imparare a valorizzare quello che abbiamo. A non chiuderci nei nostri schemi e nei nostri recinti. Ora abbiamo paura e vogliamo riutilizzare soluzioni che abbiamo già utilizzato in passato. Perché ci fanno sentire al sicuro. Ma con l'esperienza, come ha detto Rutelli, il cambiamento è più facile da innescare e da accettare.

Dobbiamo studiare: la storia degli altri, come gli inglesi e - di nuovo - gli americani; e dobbiamo farlo per avere una visione più ampia e onnicomprensiva, e più pronta a reagire alle sfide che, ogni giorno, si pongono davanti a noi. Prima di me, di questo post, l'ha sottolineato brillantemente Alberto Pasquale nel suo intervento.

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