La trilogia dei cooperanti
Terzo volume di racconti di cooperanti nel mondo, anche questo stracolmo di curiosità, spunti di riflessione, esperienze e notizie: appare in libreria (o sulle piattaforme web) Senza Barriere - Posti lontani, genti sconosciute e umanità in cammino (pagine 138, euro 14, Infinito edizioni) sotto la vigile cura dell’instancabile medico tropicalista Giampaolo Mezzabotta. A distanza esatta di un anno dal secondo libro (Dove la polvere brucia gli occhi - È lì che parte la sfida; pagine 160, 18 euro, Infinito edizioni) e due anni dopo A viverci è tutta un’altra storia (per il quale avevo già scritto su Mondo Solidale-Repubblica.it e nel mio blog su Repubblica.it (urly.it/3xg21). Ventuno testimonianze il primo, 17 il secondo (3 new entry), undici l’ultimo, con un nuovo entrato: qui scriverò del secondo e del terzo libro.
Il messaggio e gli interrogativi - Nelle prefazioni dei due autorevoli e importanti personaggi del pianeta delle Ong e associazioni - don Dante Carraro di Cuamm-Medici con l’Africa e Riccardo Noury di Amnesty International - troviamo una serie di spunti che richiamano l’intero progetto - nato come naturale prosecuzione del blog Salirei anch’io su quel barcone. Parlano di aiuto allo sviluppo e di migrazioni. E la parola stessa Cooperazione ci richiama ad uno sforzo comune. Per don Dante, in chiave cristiana, «se non c’è condivisione di vita, non c’è vera cooperazione, frutto di tempi lunghi, pazienza, fiducia guadagnata giorno per giorno». Ricordando Papa Francesco ripete quel “Siamo tutti sulla stessa barca” e il “Nessuno si salva da solo”. A me erano venuti in mente il romanzo di Margaret Mazzantini del 2011 e poi la performance del 2018 di Marina Abramovich e i murales di Banksy! Per molti impegnati nelle periferie del mondo il richiamo potrebbe essere a Paul Freire e alla sua “Pedagogia degli oppressi”: «Nessuno educa nessuno, come nessuno si educa da solo, gli uomini si educano insieme con la mediazione del mondo». Il portavoce di Amnesty Italia - nel terzo volume - ha fatto eco e lo esplicita: «Non è possibile per un cooperante lavorare da solo, ma la chiave è proprio la comunità».
Questione complessa - Mezzabotta ci arriva dritto: «La cooperazione è esattamente quello che la parola significa: lavorare assieme verso un obiettivo comune. Non dare, donare o fare da soli». Ma sulla “comunità” il medico tropicalista dalle molteplici esperienze la fa più complessa nel suo capitolo (il più emozionante e profondo che finora ha scritto, a parer mio) “Partire” che apre il terzo libro: «Non appartenere alla comunità in mezzo alla quale vivevo, non parlarne la lingua, non condividerne la condizione socioeconomica faceva sì che ci fosse un invisibile ma robusto diaframma tra me, che ero lì per scelta, e chi era lì perché vi era nato ed era destinato a restarvi». E ancora: «Ma è proprio lì che emerge la differenza tra chi, come era il mio caso, osserva la scena dall’esterno e può inorridirne e chi, invece, vive da povero tra i poveri». Per poi aprire alle emozioni personali: «Non si passa indenni attraverso esperienze che – pur non colpendoci direttamente – mettono in mostra tutta la crudezza del mondo».
Chi siamo e perché partiamo - Sempre Mezzabotta ci riporta alla professionalità: «Siamo semplici professionisti dell’aiuto allo sviluppo – una professione che spesso non è ben compresa né apprezzata». Ma come si decide di partire? Varie le risposte. Un poco ideologiche: «Alla fine approdai all’organizzazione che per orientamento ideologico e professionale più si confaceva alle mie aspettative» (Partire - Giampaolo Mezzabotta). Molto razionali: «Erano gli anni della pletora medica, in Italia c’era un medico ogni 150 abitanti (…) Mi sembrava quindi logico liberare un po’ di spazio nelle affollate corsie di ospedale» (Una luce nel buio - Filippo Curtale). Curriculum: «Una internship alla fine dei miei studi di Medicina» (Un cammino tra il nascere e il morire - Fabrizia Del Greco). Il caso: «Il lavoro in Libia capitò per caso» (Quella volta nei campi di detenzione in Libia - Maurizio Angeloni). Cambiamento: «Il desiderio di varcare i limiti ristretti del mio mondo» (Oltre i limiti - Giovanni Norbis). Inconfessabili dubbi: «A volte mi rendo conto che non so perché sono venuta fin qui» (Figli di una guerra qualsiasi - Maddalena Grechi). Certezze: «Se vuoi aiutare qualcuno, prima chiedigli di cosa ha bisogno. Chiedigli anche come vuole che le cose vengano fatte o addirittura proponigli di farle insieme a te». (Attenti al lupo! Viva il lupo! - Davide Berruti). Ma comunque: «Una volta che sei partito, l’immagine che avevi di te stesso e i tuoi legami affettivi vengono d’un colpo spazzati via. E, tranne rare eccezioni, non torneranno più. O non come prima» (Mezzabotta).
Maestri e salvatori - In quasi tutti i racconti appaiono figure mitiche - ma assai concrete, incontrate nel proprio percorso - medici instancabili e cocciuti nelle sale operatorie, suore tuttofare dal piglio manageriale e prudenti dispensatrici di consigli, autisti e accompagnatori dalle poche parole ma dalla saggezza infinita. Ecco sono i “padri putativi” dei nostri scrittori, coloro che hanno fatto scoprire vita, costumi, pensieri, modi e segreti delle nuove realtà, Africa, Asia o America Latina che fosse. C’è qui il tramandare esperienze, introdurre nei nuovi mondi, c’è una storia che continua, e forse questa trilogia ne è un esempio limpido, per nuove generazioni di cooperanti. «Il mio mentore per il tirocinio pratico era un medico cinquantenne del Togo con molta esperienza sulla lotta alla lebbra in Africa«. «Figure leggendarie – come il dottor Prandoni all’ospedale di Wamba o i dottori coniugi Piero Corti e Lucille Teasdale che fondarono in Uganda, nel 1959, il Lacor hospital di Gulu – sono rimaste a lungo nella mente e nel cuore di molti di noi come amici e modelli di ispirazione». «Ma uno dei ricordi più belli e indelebili fu l’incontro con Mukiri, il “silenzioso”, come tutti lo chiamavano, nel cuore della foresta delle colline dello Nyambeni, a Mukululu. Un missionario tanto umile quanto attivo e, direi, portentoso. Costruttore di chiese, ma soprattutto “portatore d’acqua” e difensore della comunità e della sostenibilità dei progetti».
Amore per le terre visitate - C’è poi un trasparente amore/nostalgia per le terre dove hanno operato. Etiopia: «Me ne sono innamorato fin dalla prima volta, sedotto dalle sue bellezze naturali, innamorato delle sue genti, incantato dalla sua arte, intrigato dalla ricchissima storia». «Lo Sri Lanka era ed è tuttora quello che più si avvicina al paradiso terrestre: un paesaggio di foreste tropicali e campi di riso luccicanti sotto un cielo intermittente di piogge monsoniche che rendevano l’aria pulita, popolato di gente cordiale e accogliente verso gli stranieri». «Kampala anche una specie di paradiso in terra per il suo clima temperato e costante, per il fatto di sorgere sulle rive di quel pezzo di mare al centro dell’Africa Nera che è il lago Vittoria e per la grande quantità di verde pubblico che abbellisce i viali e le piazze». «Un‘eterna primavera era il Kenya dalle falde lussureggianti dell’omonima montagna, alle cime non meno belle degli Aberdare, dove c’è ancora il piccolo ospedale missionario di North Kinangkop. Dai laghi della Rift Valley, Naivasha, Nakuru, Baringo e Turkana, fino ai bassopiani disabitati a nord del Kaisut desert, da Laisamis alla foresta di Marsabit e a sud verso il Masai Mara e lo Tsavo, fino alle barriere coralline della costa sull’oceano Indiano».
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Migrazioni e riflessioni struggenti - Sostiene Mezzabotta: «La riflessione sul “non avere qualcosa che eri abituato ad avere” è dominante nella vita di un cooperante e alla fine porta a capire quali sono quelle cose di cui non puoi proprio fare a meno». «Dopo anni in Africa, ho imparato che la nozione di vita e di morte è molto peculiare e può essere ben diversa che nelle altre culture. Essa si sviluppa con un andamento circolare e segue un ritmo ciclico: questo consente alle persone in Africa di affrontare la tragicità della morte forse in modo più resiliente» (Luca Falqui). «Ogni tanto qualche donna mi mette in braccio un figlio piccolo e mi chiede di portarlo via da qui, nel Paese dei bianchi, al sicuro». (Maddalena Grechi). «Ed eccolo lì, un gommone nero, poco più grande del nostro, vuoto. Scrivo e ancora adesso brucia, fa male, piango…Perché nessuno vuole mettere fine a quest’inferno? (Marta Piras sulla nave salva-migranti). E ancora: «Questa generale estrema gentilezza contrasta non poco con la corruzione dilagante, la povertà diffusa e la violenza imperante».«La determinazione delle donne africane va oltre il nostro immaginario di operatori “del primo mondo” che ancora non hanno accumulato anni di esperienza in terre difficili. Ci spiazza e ci minimizza, ricordandoci quanto rispetto dobbiamo a delle anime così umili e, allo stesso tempo, così forti».
Disagi e assurdità - Tra i tanti spunti (difficile citarli tutti) segnalo gli aspetti quotidiani e le contraddizioni che emergono. «A colazione, pranzo e cena si mangiava sempre lo stesso cibo». «Nella media, percorrevo duecento chilometri al giorno, quasi interamente su pista…». «Impossibile far lavorare insieme l’Unicef e l’Oms». «La cooperazione a quel tempo non era solo affollata da esempi miopi. Conoscevamo anche esempi criminali…». «Per le medicine contro l’Aids, invece, il paziente doveva recarsi di persona al dispensario per riceverle oppure poteva delegare un parente a farlo tale mancanza di sinergia tra i due programmi (TB e Hiv, ndr) era un problema diffuso e serio». «L’odore dell’immondizia è così forte da stare male e nuvole di mosche si depositano dappertutto, tanto che devono tenere tutto assolutamente coperto, soprattutto il cibo, per non rischiare malattie. Quando piove è anche peggio, perché l’acqua trascina i liquami intorno alle loro case, costringendoli a camminarci dentro».
Disuguaglianze - Una sola volta - in tutti i capitoli - si fa riferimento agli ambiziosi obiettivi 2030 dell’Onu, i 17 Sustainable Development Goals - Obiettivi per lo sviluppo sostenibile. Il dopo CoVid ci ha lasciato una eredità tremenda nel mondo. Inoltre i cambiamenti climatici e le disparità crescenti accrescono i problemi. I progressi nella lotta alla malaria di due decenni sono messi in discussione dalle nuove resistenze alle cure con artemisina per il terribile Falciparum in molti paesi dell’ Africa dell’Est e dal nuovo vettore Anofele che arriva dall’Asia. Mutazioni e resistenze si registrano in tutta l’area asiatica del Mekong, in Uganda e Rwanda (vedi New England Journal of Medicine urly.it/3xg26). Il virus Dengue, portato anche dalla zanzara tigre, è approdato in Italia non più con gli aerei dei turisti ma con focolai autoctoni. Pochi casi per ora. E non rassicura il via libera dell’AIFA (l’Agenzia italiana del farmaco) al vaccino della Takeda. Per la TBC siamo arretrati globalmente: incidenza e decessi sono aumentati tra il 2020 e il 2021, finanziamenti in calo, la pipeline per un vaccino realmente efficace è in ritardo. Il colera è in forte ripresa, casi raddoppiati globalmente, con epidemie in diversi Paesi (urly.it/3xg28). Anche per HIV-Aids siamo in ritardo sugli obiettivi 2030 (www.theglobalfund.org/en/results/). Persino sulla poliomielite la fine prevista per quest’anno è rinviata (urly.it/3xg29). Non sorprende quindi la riflessione che emerge sulla formazione e training degli studenti nei corsi di Salute Globale. La rivista Lancet Global Health (urly.it/3xg2b) si interroga se un quasi esclusivo focus sui Paesi del Sud Globale (a basso e medio reddito) sia la strategia e il modello di insegnamento migliore. Ciò coinvolge anche l’approccio alla cooperazione internazionale e le Ong: è la diseguaglianza, ovunque essa sia - le minoranze marginalizzate, gli immigrati - lil nodo da affrontare, sembrano indicare i due autori dell’interessante testo-appello. L’approccio Glocal (Globale e Locale) senza scoraggiare esperienze in Paesi a basso reddito, cerca di segnalare ad università e istituzioni le sacche di povertà e ingiustizie presenti sotto i loro occhi.
Insegnamenti e letteratura - Nei diversi capitoli dei due libri si possono apprendere molte cose, non solo su tradizioni e costumi ma anche sulle vicende recenti dei Paesi. Ne sono esempio - intrecciando la Storia con le storie personali - gli affreschi Venti di guerra africani di Jacopo Resti o Somalia, Anni ‘70: la guerra da vicino di Giovanni Norbis. Così il medico Carlo Resti con il suo racconto in Kenya e soprattutto l’apertura alla cultura locale e al dialogo con i guaritori. Sempre in campo sanitario è assai interessante il capitolo Essere donne in Africa del medico chirurgo Augusto Cosulich (fatto salvo l’incipit alquanto "patronising"). Interessante e profondo - a mio modesto parere - è A Garoura non c’è bisogno di guerra del pediatra Paolo Giambelli. Qui c’è sapiente scrittura. «Il Sudan si infila come un’enorme zolla di pietre e sabbia al centro di chi viaggia attraverso l’Africa (…) Traccia una spessa linea tra l’Africa nera e quella che si affaccia sul Mediterraneo. Non è comunque uno spazio vuoto, fatto solo di immense distese assolate, un sasso rovente. Al centro, nel suo ventre, pulsa l’aorta, il Nilo. (…)» Nè va sottovalutato l’apporto della suora Anna Maria Gervasoni delle Isole Salomone (sempre pieni di curiosità e descrizioni i suoi scritti) né il clamoroso ritratto che ci regala il fotografo Marzio Marzot: «Touré, etnia hausa del Niger, è alto, secco e contorto come un vecchio tronco, occhi acquosi ma puntuti e una bocca deformata da lunghi denti posti un po’ a caso, come se un giorno avesse addentato un sandwich con una mina anti-persona nascosta nella lattuga». Poetica e struggente la tropicalista Fabrizia Del Greco: «Avrà avuto otto anni, nel momento in cui la madre veniva seppellita (..) Con i suoi occhi grandi e senza lacrime, mentre suo padre cedeva al pianto rifugiandosi sotto un alberello spoglio, lei pareva raccontare che tutta quella vita nascente aveva la sua contropartita, perché era giusto così, perché in Africa lo impari sin da piccolo, dalla maestosa natura, che la vita è un cammino, a piedi nudi, nella terra rossa, tra il nascere e il morire»
Finale senza conclusioni - Ma c’è ancor di più nei due libri. Tanti personaggi e immagini che si affollano, dal bimbo Francisco e il padre Edson (Luca Falqui), la Libia del giugno 2012 (del ginecologo Maurizio Angeloni), la ricerca sulla tratta delle prostitute (il sociologo Francesco Carchedi), quel “Forse non tutti si ricordano della storia delle ragazze di Chibok…”(Davide Berruti). Resta la drammatica vicenda del parto in Angola che racconta la capo-progetto Ilaria Onida: «Restai fuori mentre le acacie salutavano il colore violaceo del cielo all’ora del crepuscolo. Mi invasero frotte di moscerini e di zanzare che banchettavano sulla mia pelle». Ma soprattutto la questione irrisolta - irrisolvibile? - delle migrazioni. Marta Piras ce la racconta da Siviglia, l’effetto (collaterale?) della surreale vicenda della nave OpenArms - 2019 - che approdò in Spagna dopo i dinieghi allo sbarco dell’allora governo Conte-Salvini (ma riusciremo a dimenticare anche questo). Alla fine morì un ragazzo minorenne: «F. ci raccontò che i genitori di A. avevano litigato riguardo la sua partenza verso l’Europa; uno dei due non era per niente d’accordo e avrebbe voluto che il figlio rimanesse in Somalia. Spettò a F. l’arduo compito di parlare con la madre del suo amico (…) Successivamente A. fu portato al cimitero di Jerez de la Frontera, Cádiz, dove da allora riposa». Sembra un poco la storia portata sullo schermo da Matteo Garrone - splendido documento - “Io capitano”. Paolo Giambelli la racconta così e c'è da crederci: «Per un uomo di Garoura, sudanese o eritreo, partire è una questione di niente: non lascia niente, non porta via niente, e lungo il viaggio vivrà esattamente come fa ogni giorno: poca acqua, poco cibo, poche storie da ascoltare. Il viaggio non crea disagio, privazione. Qui non c’è guerra, non più. Non c’è bisogno di guerra per lasciare Garoura. (…) Il grande dolore è lasciare la famiglia, i vecchi, le sorelle e le madri. Il dramma non è il viaggio, ma la violenza del viaggio, quella che si dovrà subire a ogni stazione, o ogni frontiera, a ogni sosta. Quella che verrà fatta a te e, se non a te, quella che vedrai, quasi ogni sera; lasciata Garoura la sera si dovrà stare sempre con la testa girata, per non essere colpiti ma soprattutto per non vedere e diventare orribili».