“L’ARTE E I SUOI INCANTESIMI”: Antonio FOGAZZARO!
“L’ARTE E I SUOI INCANTESIMI”: Antonio FOGAZZARO!
Sotto questo titolo, di tanto in tanto, la “Scientific and Cultural Promotion” offrirà alle sue dilette Lettrici e ai suoi cari Lettori alcune “chicche” di bellezza artistica, al fine di allietarne il sensibile e tenerissimo Spirito.
Noi immaginiamo che chi ci segue fedelmente negli astrusi e complicati meandri del “Trivio e del Quadrivio” abbia pur bisogno di ristorare la propria Anima, nel balsamico lago sentimentale dell’estasi e dell’amore.
Negli esempi che pubblicheremo sotto il titolo “ L’Arte e i suoi Incantesimi”, seguito dal nome dell’Autore, la parola, il segno, il tratto di pennello, la nota musicale, il linguaggio figurativo, i traslati, le retoriche, le figure architettoniche, i sermoni, le lodi, le invocazioni, le preghiere, i bozzetti e quanto altro possa immaginarsi di sublime valore artistico, NON STARANNO AD INDICARE QUALCHE COSA, MA SARANNO LA COSA STESSA! Con buona pace all’anima di Jean-Paul SARTRE e alla sua egregia ed utile analisi: ” Che cos’ è la Letteratura?”
L’ Alone Semantico dei nostri amati, Lettrici e Lettori , sarà messo a dura prova, ma il “piacere” che ne scaturirà sarà immenso!
Oggi, iniziamo con Anto nio FOGAZZARO, tanto caro al nostro cuore!
22 Settembre 2019
Sergio Rapetti - president
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( LEILA, la protagonista principale del Romanzo omonimo, dibattuta e flagellata da un indicibile tormento d’amore, s’immerge, quasi come un automa, nelle “petrarchesche” fresche e dolci acque di un ruscello, sotto lo sguardo della Luna. La descrizione è un capolavoro di “prosa lirica”. Aprite l’animo verso un’attenta e gustosa lettura e lasciatevi rapire dalla divina arte “fogazzariana”! )
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“ Neppure adesso, movendo verso il Parco che nelle sue grandi ombre chiude un laghetto profondo, in parte, oltre a due metri, alcun triste proposito era in lei. Le bastava la certezza di avere un rifugio pronto, le bastava dirsi in cuore: quando voglio, posso. Però, nell'aprire e spingere il cancelletto, le tremò un poco la mano. S'inoltrò nella radura dove, fra giganti guardie di alberi, si apre l'ingresso al regno del Silenzio. Scendendo sulla ghiaia del giardino e della via pubblica, aveva tremato che il suo passo, pur tanto leggero, si udisse. Ora ogni suono n'era spento. Ell'andava sull'erba falciata di fresco, silenziosamente, come uno spirito. Ogni senso di sgomento l'abbandonò. Perdersi fra quelle tacite ombre, per le molli erbe senza via, sotto il cielo buio, le fu come un uscir del mondo in seno a tenebre materne. Seguì sussurri di rivi per grembi ascosi, per grembi scoperti del monte, affondò spesso il piede nell'erba pregna di acque segrete. L'aria era immobile, fresca e odorata di umidore nelle cavità ombrose, calda sui pendii scoperti e viva di fragranze selvagge, di amorose voci mute dell'erbe. Si gittò supina sopra uno di questi pendii, come vinta dalla tepida dolcezza. Materna era la notte alle cose! Le dolci loro anime vi si effondevano libere e Lelia stessa era una piccola creatura della notte, una sorella delle cose amorose. Giacque nella dolcezza di desideri indistinti, senza pensare, come talvolta nel suo letto, piovendole sui capelli e sul guanciale petali di fiori. Lo spirito voluttuoso che le ascendeva nella persona dalla terra tepida, fragrante, tacendole il cielo chiuso sulla faccia supina, le ammolliva le resistenze dell'orgoglio all'amore. Ella svelse un pugno d'erba e lo morse. Si alzò allora, riluttante a rimanere, riluttante a lasciare il giaciglio profumato. Salì, poco più su, nel tubo nero di una lunga carpinata. Alla sua destra un piccolo chiarore fioco segnava la bocca lontana del tubo. Alla sinistra le tenebre non avevano fine e suonavano di acqua cadente. Prese a sinistra di certo sentiero uscente dal viale a un folto di acacie dove corre il rivoletto che poi salta e suona. Lo trovò, si fermò fra le acacie, sul margine del rivoletto che udiva senza vederlo. All'invito della voce blanda cominciò, come per istinto, a spogliarsi. Accortasi di quel che faceva, sostò. Saggiò l'acqua colla mano. Era fredda. Meglio; le farebbe bene, così fredda. E continuò a spogliarsi, senza nemmanco vedere dove posasse le sue robe, fino all'ultimo vestimento, che non lasciò. Pose il piede nella corrente, rabbrividì. Ne tentò il fondo: ghiaia e due palmi d'acqua. Vi pose anche l'altro piede e, stretta il cuore dal gelo, chiusi gli occhi, semiaperte le labbra, calò piano piano, con piccoli gemiti, si adagiò, si distese. L'acqua le corse via intorno alla persona, tutta carezze gelide, le fluì tutta piccole voci soavi intorno al collo e sul petto ansante. Le si faceva meno e meno gelida. Altre voci soavi sussurrarono per l'aria. Lelia aperse gli occhi, si drizzò a sedere stupefatta. Vide se stessa bianca, vide un chiaror diffuso su l'acqua tremula, i margini, le sue vesti, nella selva che moveva le vette argentee, mormorando, al vento. Era l'aurora della luna, era un misterioso destarsi delle cose nel cuore della notte. Dalle acacie piovevano fiori sul ruscello, sui margini. La fanciulla si compresse il petto colle braccia incrociate, gemendo, nel crescente chiarore lunare, nella fragranza del bosco, nella pioggia fiorita, di uno spasimo dolce, senza nome, che le gonfiò il petto di lagrime. Lagrime e lagrime le caddero silenziose nell'acqua tremula, lagrime ardenti dell'anima rapita nel divino incanto. Risalì sul margine del ruscello, si vestì alla meglio e, battendole a furia il cuore, discese in fuga la via percorsa nel salire, non diede uno sguardo alla luna splendente, fra nuvola e nuvola, sul ciglio del Monte Paù, uscì del cancello di legno col senso di un naufrago che si salva. Teresina, che l'aspettava nel portichetto dell'ingresso al giardino rabbrividendo di mille paure, l'accolse col medesimo senso di conforto. «Ha preso paura anche Lei, però, signorina» diss'ella vedendole dare un tremito e non sapendo della camicia inzuppata che aveva addosso.
«No no» rispose Lelia, «ma non ci ritorno più.» “
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