Le molte vite di Pomposa - Anna Fuggi
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Le molte vite di Pomposa - Anna Fuggi

L’alta torre campanaria del magister Deusdedit svetta dal castello abbaziale a rassicurare il pellegrino silenzioso che a piedi con il suo bordone, lungo la via Romea, attraversa l’insula, nel suo lungo e periglioso cammino verso la Terra Santa. L’alba rischiara la piscaria Volana, la massa di Lagosanto, di Ostellato e il fundum Baoria, illumina il porto, le selve, i campi coltivati, i boschi, le case, le cappelle, le chiese, disseminate dal Ferrarese alla Romagna, fino alle Marche, all’Umbria, al Veneto, alla Lombardia e al Piemonte e colpisce la facciata del monasterium del colore della terracotta del mattone e dei vasi policromi. Ecco il leone, il pavone e l’aquila, accarezzati dal canto delle cento vibranti voci del mattutino benedettino. Ecco i contadini che sciamano sulle barchette del Po e il rintocco squillante della campana a liberare la numerosa familia dei monaci verso lo scriptorium, il tribunale, l’armarium dei libri dell’abate Girolamo, l’erboristeria, il refettorio, le cucine, gli opifici, i campi. Finalmente il verde del chiostro, l’odore della pietra, ecco Sancta Maria in Comaclo, qui vocatur in Pomposia, fervore benedettino, a metà strada tra Cluny e Montecassino.

Pomposa è, nel cuore dell’anno Mille, il Medioevo: sapienza, fede, musica, arte, potere, forza immaginifica, bellezza, maraviglia. Guido, inventore della notazione musicale (modo in Italiam primum), poi Mainardo e poi Girolamo governano l’abbazia nell’XI secolo e ne costruiscono la grandezza politica, economica, spirituale e culturale.

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Tre secoli dopo, un discendente del medesimo pellegrino avrebbe trovato al suo passaggio l’insula, le selve, i campi coltivati, la ricchezza che proveniva da questo ambiente, in lento e inesorabile declino. Avrebbe visto con i suoi occhi le tracce della lenta agonia del Po, i disastri delle “rotte” catastrofiche e i vasti allagamenti. Avrebbe saputo anche del malgoverno dell’abate Anselmo, deposto (1199) dal papa per “simonia, spergiuro, dilapidazione ed insufficienza”, dello sperpero del patrimonio dell’abate Alberto (1230-1245) per pagare i creditori, delle liti accapigliate fra i monaci durante l’elezione dell’abate Giacomo (1286-1292), delle scorrerie dei Ferraresi, destinate nel tempo ad espropriare l’abbazia dei suoi territori e diritti. Sopravvissuto almeno fino a quel punto al suo viaggio, mangiando nel refettorio e gettando lo sguardo nella sala capitolare, avrebbe però ammirato gli affreschi alla maniera di Giotto e riconosciuta quella piccola gazza, simbolo dell’autorità dell’abate Enrico (1302-1320). E nelle ombre della sera, in quella pianura, entrando nella chiesa abbaziale, camminando, alzando lo sguardo, lungo la navata centrale fino alla controfacciata dell’abside avrebbe provato lo stesso sgomento visionario di Giovanni: Patmos, i sette candelabri, il libro dei sette sigilli, l’agnello e gli evangelisti, la cavalcata dei cavalieri dell’Apocalisse, i quattro angeli, la sesta tromba, la donna, il dragone, le fiere, Babilonia, il Vendicatore, Satana e l’abisso, la seconda parusia, il Giudizio universale, la Gerusalemme celeste. Impressionato, avrebbe pensato ad un pittore e ad un abate, ai colori e all’immaginazione di Vitale da Bologna e dei suoi allievi, che avevano creato quella sorta di Biblia pauperum dal nulla, dando forma con l’immaginazione e il colore alle parole, e ad Andrea di Fano (1336-1361), ultimo grande abate di Pomposa, uomo sopravvissuto alla peste nera, custode di una preziosa tradizione secolare, solo, contro la decadenza della fede, in un monastero ormai del tutto privo dell’evocazione di quel fervore religioso che aveva infiammato per due anni, le giornate trascorse a Pomposa, tra lo studio e la preghiera, di san Pier Damiani.

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Nella tiepida primavera del 1563, abate e monaci lasciano Pomposa, nell’insula solo pochi monaci stanchi restano a guardia. Hanno perso la memoria dell’universo da cui provengono. E con la memoria si disperde anche l’archivio. Due capse cum cartis et instrumentis diversarum rationum, risuona la voce di ser Francesco Pellipari, mentre legge all’abate Rainaldo d’Este, l’inventario patrimoniale che gli ha commissionato e che riporta l’elenco dei documenti, dei libri, degli arredi sacri del monastero. La scarna notizia pone la prima bandierina di una lunga e non ancora terminata “caccia” al tesoro delle carte del Tabularium della Pomposa. È il 1459 e l’archivio è ancora nella sua sede originaria.

Poco più di un secolo dopo, nel 1563, fra i bagagli dell’abate e dei monaci che lasciano definitivamente l’insula alla volta del monastero di San Benedetto di Ferrara, viaggia anche l’archivio. Non ne fanno più parte, però, i documenti pubblici più importanti, i privilegi e i diplomi imperiali e pontifici (47 unità per gli anni 1001-1410) che gli abati commendatari della famiglia estense hanno prelevato dal Tabularium e incamerato nell’archivio della Signoria, oggi all’Archivio di Stato di Modena. Gli Este “sottrassero” anche il privilegio di Enrico IV di Franconia per Pomposa, un documento di particolare eleganza: l’imperatore dell’episodio di Canossa, che aveva come padrino un benedettino d’eccellenza, Ugo abate di Cluny, lo fece vergare dalla sua cancelleria con inchiostro dorato su pergamena purpurea.

A San Benedetto le carte vengono riordinate, descritte e segnate dal monaco Ludovico Morini.

E’ il 1674. Minuscoli cartellini, di cui si trova ancora traccia, sono applicati a ciascuna pergamena con l’indicazione della lettera della capsula e il progressivo numerico della pergamena (B89 è la segnatura “Morini”). Il suo inventario, completo dei regesti, è oggi perduto, se non fosse per due copie parziali, conservate a Ferrara e a Montecassino, dalla cui collazione è possibile ottenere i regesti di 302 documenti, fino alla pergamena B89. Forse è nel 1720, durante un soggiorno a Ferrara che lo storico, studioso e abate Benedetto Bacchini riordina, regesta e segna nuovamente le pergamene della Pomposa, ripartendole in mazzi da trenta e riponendole in cassetti (B.VI.23, è la segnatura “Bacchini” che indica il numero 23 di pergamena, il mazzo VI a cui appartiene, il cassetto B in cui è riposto il mazzo).

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L’Indice cronologico del Bacchini, annotato e integrato dall’autore stesso e poi dal monaco cassinese Placido Federici, è conservato in originale alla Biblioteca Braidense di Milano, mentre una copia coeva, annotata e integrata come l’originale, è all’Archivio diocesano di Ferrara. Sarà poi la volta dello “storico di Pomposa”, Placido Federici che, sotto la spinta del fratello, decide di rendere più lieve il suo esilio ferrarese a San Benedetto con il proposito di compilare una grande storia dell’abbazia di Pomposa in tre volumi.

A tale fine, tra il 1773 e il 1778, con l’aiuto dei giovani monaci del monastero, copia negli otto volumi del Codex Diplomaticus Pomposianus, oggi nell’Archivio di Montecassino, i due terzi dei documenti pergamenacei che si trovavano in quel momento nel Tabularium. Tutto questo furore erudito è drammaticamente interrotto dalle soppressioni francesi delle corporazioni religiose. L’anno 1797 segna il turno di San Benedetto di Ferrara.

Le carte di Pomposa seguono le sorti di quelle degli altri monasteri soppressi: poche pergamene restano a Ferrara, e oggi sono all’Archivio Storico Diocesano nel fondo San Benedetto, la maggior parte, destinata al costituendo “Archivio centrale del Regno d’Italia”, parte alla volta di Milano verso il grande Diplomatico del Regno.

Oggi solo una piccola parte delle carte di Pomposa, 194 unità, è conservata all’Archivio di Stato di Milano, nella busta 20 del Fondo Museo Diocesano e nella busta 713 in quello delle Pergamene per Fondi. Ma il viaggio è lungi dall’essere terminato, nel 1808 il direttore dell’Archivio di Milano dà notizia della restituzione nel 1817 di circa 9000 pergamene alla città di Ferrara e del fatto che nel viaggio di ritorno furono trafugate e perdute. Sta di fatto che molte carte ferraresi compaiono sul mercato antiquario, molte sono parte della collezione di chartes ou diplomes del conte novarese Carlo Morbio. Da qui e per canali diversi giungono, in due blocchi separati, all’Archivio di Stato di Roma, che le acquista nel 1884 e le conserva nella Collezione Pergamene, Pomposa, cassette 199200 (1002 pergamene e 150 manoscritti) e nell’Archivio privato dell’Abbazia di Montecassino.

A Montecassino arrivano, nel 1882, donate da Federico di Furstenberg, arcivescovo di Olmutz (oggi Olomouc in Repubblica Ceca), circa 3100 pergamene ferraresi, oggi conservate arrotolate in 105 fascicoli. Di esse, circa 2000 sono riferite a Pomposa (Fondo Carte di Pomposa) e regestate tra il 1882 e il 1888 da don Placido Mauro, monaco archivista, sui cartigli ancora oggi legati ai rotoli e nei sei volumi manoscritti del Codex Pomposianum. Poi in epoca recente “nuovi cavalieri fanno l’impresa”: Antonio Samaritani, con i Regesta Pomposiae per i documenti tra l’874 e il 1199, editi nel 1963 e Corinna Mezzetti con l’edizione critica dei documenti tra il 932 e il 1050, nel 2016. Questo lo stato dell’arte. Questo il nuovo punto di partenza.

particolare dell’affresco fotografato da Antonella Garlandi – particolari interni dell’Abbazia e copertina ripresi da Roberto Romagnoli –

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