L’Innovazione come cammino. Prima parte

L’Innovazione come cammino. Prima parte

La mia proposta vuole essere  radicale rispetto ai consueti approcci di educazione riparatrice, formazione manageriale, di individuazione dei talenti, di gestione delle risorse umane.

Sono animato nell’individuare una proposta davvero innovativa a vantaggio dei lavoratori che in questa stagione si trovano in difficoltà.

Da un punto di vista del metodo, ho scelto di iniziare con questo pezzo una riflessione a tappe che mi faccia rimanere  sul campo e di capire cosa avviene. Quindi non utilizzerò dati e analisi di dati.

Per iniziare dirò che ci sono  due  aree, due sponde di questo campo. Entrambe mi interessano e mi riguardano.

Si tratta di capire come innovare educazione e finirla di registrare casi o fasce di giovani che non sono inclusi nelle nostre Società e da una altra parte  si tratta di rendere la formazione  efficace per i tanti adulti che escono dal mondo del lavoro o che altro non possono fare che resistere.

In queste settimana il punto di osservazione  e di riflessione è la  immersione in un progetto  che si sta sviluppando nel quale un gruppo di ragazzi minori finiti nel circuiti della giustizia minorile  si stanno preparando per una esperienza di Carovana educativa della durata di 5 mesi. La Carovana sarà replicata 7 volte nel giro di 3 anni con gruppi diversi di ragazzi.

Io ho il compito di contribuire alla selezione e poi formare ex-ante e in itinere i giovani educatori che hanno aderito a questa proposta.

Al cuore del progetto ci sono 10-12 ragazzi in età tra 15 e 19 anni.

Si tratta di persone giovanissimi con pezzi  di “bene “e  pezzi di “male” cuciti insieme. L’ipotesi da cui muove la proposta  educativa è di vedere un  ragazzo di 16 anni  che è soprattutto “bene”, con una  esplicita parte di “male”, come una risorsa che puo’ essere accostato e invitato a  rielaborare questa parte che crea sofferenza a lui a tutti. I dispositivi in uso normalmente  per questi ragazzi non sono educativi ma utilizzano l’equazione “reato con pena”o in altri casi sono terapeutici. Qui si vuole dire invece “pena con progetto”( L.Eusebi).  In alcuni casi diffusi la proposta è sì educativa ma coercitiva, basata su modelli ereditati da Comunità terapeutiche. E’  dunque uno spazio nuovo che si apre, complementare ad altri approcci. 

La esperienza mi  è permessa da Fondazione Exodus con la quale è stata ripresa la geniale idea della carovana itinerante.   E’ definito un tempo medio lungo  per guardare avanti e non indietro, con la mente del viaggiatore.  Dice l’antropologo  Marco Aime[1]  in “Timboctu” a proposito della potenza del viaggio:

(…) Eric Leed, nel suo splendido libro La mente del viaggiatore, mette in luce come invece sia proprio il transitare la fase che più contribuisce la percezione del viaggiatore. Il viaggio, infatti, nella sua accezione storica, rappresenta un’esperienza liminale: il viaggio è «tra».

E’ il movimento, il passaggio cosciente da un luogo all’altro, a modificare le percezioni del viaggiatore, così come ne modifica l’identità e carattere. Lo spostarsi produce effetti mentali in quanto sviluppa le capacità di osservazione e concentrazione. Il movimento diventa esso stesso veicolo di percezione che astrae e generalizza la forma e i rapporti dalle cose e dai termini. Il viaggiare provoca  uno stato di flusso  che innesca una distorsione del tempo.

Lo spostamento soddisfa e genera un bisogno di movimento, ma può anche generare successivamente altri desideri: di stabilità in una situazione di squilibrio, di immutabilità in uno stato transitorio, di coerenza in un clima di dissociazione. Mutano i rapporti con gli altri, cadono molti pregiudizi legati alla stanzialità se non altro perché un individuo, abituato a pensarsi come al centro del suo mondo, una volta in viaggio diventa egli stesso marginale e deve perciò modificare il proprio sguardo.

Questa ricca e complessa dimensione viene sempre più a mancare nel turismo contemporaneo, fatto sostanzialmente  di partenze e arrivi. Lo si nota nella dimensione «macro»  del viaggio da casa propria al paese di destinazione, ma anche in quella «micro» degli spostamenti in loco (…)  

Per me è  anche una esperienza  di Ri-Generazione. Sto riprendendo i fili che mi hanno formato allora (anni ’90)  e ai quali mi sono dedicato per 20 anni. Non è una Ri-Partenza ma una Ri-Generazione. E’ tentare di generare qualcosa di nuovo non da solo.  Grazie a chi mi permette questa attività di formatore e  di pedagogista che è don Antonio Mazzi.

Bene.

Nel ragionare di educazione, di formazione, di competenze degli educatori, di sistema che agisce nella crescita di questi ragazzi mi sono imbattuto in un autore che sto leggendo in modo strabico.

Si tratta di Tim Ingold, antropologo inglese.

Con un occhio lo leggo guardando a questi ragazzi e con un altro leggo guardando al mondo del lavoro e degli adulti.  Che poi è il campo della formazione manageriale che mi ha coinvolto negli ultimi 15 anni. Se ci pensiamo il mondo del lavoro e in particolare la gestione delle risorse umane  oscilla tra “motivare la persona e liberarla” e “usare la persona per fini che in fondo non deve lui determinare”. L’uomo non è libero di scegliere il suo lavoro, non è libero quando è scelto, non è libero quando vuole creare qualcosa di nuovo. L’uomo al lavoro oggi deve “funzionare” punto e basta. Se  stiamo  poi nel mondo del lavoro e pensiamo alla questione salariale,  a come c’è disuguaglianza ampia e sempre più ampia tra il Manager e l’Operatore, tra il Top Manager o il Partner o Azionista e il lavoratore questa disuguaglianza  non ha mai raggiunto divari così ampi. Si assiste a qualcosa di terribilmente ingiusto. Che ingaggia per qualche tempo (engagment) ma che espelle volentieri.

Un sistema “lavoro” teso in questa direzione credo sia di fronte a un bivio. O crede veramente all’empowerment della persona ( Massimo Bruscaglioni direbbe “personA” con la A maiuscola e direbbe che prima di tutto viene il senso del lavorare ed esso va coltivato), crede alla assenza di controllo delle performance (correlato  a un maturo smart working), crede ad una Economia condivisa (forme di condivisioni dei risultati economici, sharing economy,ecc), abbandona il paradigma stretto delle competenze (anche IBM sta abbandonando questo sistema a gabbie che  ha  generato tanti dispositivi per “spremere” il massimo delle competenze della persona funzionale a una job description). Eccetera.

Oppure si apre uno scenario di finzione. Uno scenario  “tecnocratico” direbbe Mauro Magatti o “di vittoria dell’algoritmo” direbbe Benasayag. Uno scenario  insomma nel quale si lavora certo, ma accettando  una spersonalizzazione del senso dell’agire lavorativo che  scivola verso situazioni di ibridazione tra cervello umano e Intelligenza Artificiale.

Qui siamo ancora nel mondo del lavoro però.

E per quelli che sono fuori da questo mondo? Che sono stai espulsi prima perché sono stati impiegati come parti-funzioni di organizzazioni molto spinte che facevano loro credere di essere indispensabili. Ovvero  terminali di una formazione settoriale, molto specialistica con palestre di soft-skill ben impacchettate in  datati approcci comportamentisti o introdotti ad un uso della neuroscienza  applicata al management (già si vedono rischi di una nuova stagione di PNL con relativi danni conseguenti). 

In realtà costoro non sono ancora “fuori”, ma rischiano di uscire presto dal mondo del lavoro. 

Ovvero stanno vivendo le ultime fasi della parabola lavorativa, non stanno “bene” al lavoro, Non ne possono più, attendono il giorno della passiva e demotivante pensione. Il massimo del senso del lavorare nei sistemi che abbiamo ereditato è “andare in pensione”, cioè mettersi ad osservare la società e diventare matricola di un assegno mensile che regolarmente viene erogato. Costui presto diventa  Il pensionato consumatore, o il pensionato che attinge il suo reddito dai sistemi di welfare, finchè non arriverà più tardi una stagione tanto costosa (anche per il deperimento fisico) non più sostenibile né economicamente né socialmente. 

Problemi enormi come una casa, anzi come un mondo. E’ possibile affrontarli? E’ questo il mio interesse. 

Il ragazzo che ha deviato ( l’amico con cui sto trascorrendo queste settimane) è in fondo figlio mio, o di un mio parente, o  è un vicino di casa. Non appartiene ad una altra tribu’.

Il cinquantenne disoccupato è un mio compagno di scuola superiore che conta i giorni per andare in pensione perché non ne puo’ piu’. Sono certo che  sarà sì una ottima risorsa per il volontariato sociale ma dentro lui come sta? L’over 75enne compromesso nella salute puo’ essere mio zio, il mio vicino di casa, il genitore di un amico. Cosa farò quando non ce la farà più e la pensione non basta, né  saranno sufficienti i risparmi accantonati?

Non è importante per me ora capire dove fissare il punto, se nel ragazzo deviante o nell’adulto lavoratore o disoccupato ad un anno preciso della vita professionale. Peccherei inoltre  di semplificazione se assimilo il ragazzo all’adulto in questione. Lo so.

Il lettore potrebbe dire: che miscuglio di problemi dei giovani con i problemi degli adulti e degli anziani !… e ha ragione. Io non voglio qui risolvere il problema ma suggerire una pista di lettura proprio di questi problemi umani e delle relative  tecniche e dei metodi per affrontarli.

La mia proposta è un po’ alta ma ci provo. 

Fermiamo le categorie e proviamo avvinarci alla proposta di questo autore.

L’autore direbbe  a proposito di una visione della educazione e della  formazione per il lavoro : ”si è trattato finora  di  riempire vasi e non di accendere fuochi”.

Ma lascio al lettore il gusto di apprezzare queste pagine di Tim Ingold[2]. Lo farò nella seconda parte dell'articolo.

Mi avvio alla conlcusione.

Scrivo ora perché siamo ancora nel mese di Agosto  e il grande autunno non è ancora arrivato.

I dati sulla perdita di posti di lavoro, di un calo almeno del 15 % del Pil del nostro paese, una quota di 350 milioni di persone nel mondo che hanno perso lavoro da marzo ad oggi per via di Covid-19 ( fonte ILO, con conseguente aumento della pressione delle migrazioni) ci dovrebbe fermare tutti e spronarci a mettere il meglio di noi a disposizione per contribuire ad una soluzione umana per tutti.[3]

Devo dire che il mio non è una voce fuori dal coro. Ci sono alcune persone,  anche  se non sono molte  in realtà, che stanno reagendo come me, anzi meglio di me dato che hanno più intelligenza e ruoli di influenza. Non sto a fare nomi, ma  credo  lo farò nei prossimi giorni ( ma basta guardare le tracce che lascio nei social).

Non basta riflettere e dichiarare  buone intenzioni.. bisogna ora “mettere a terra” come dicono i manager di aziende profit quando vogliono realizzare un progetto. Bisogna davvero essere concreti e innovativi.

Insomma.

Questo mio pezzo vuole essere una dichiarazione di intenti che ha come parole chiave  scritte  a mo’ di hastag:

#oltre le competenze, #senso del lavorare, #accendere fuochi e non riempire vasi, #stare insieme a chi è stato espulso e offrire il meglio dei prodotti della formazione, #accelerare le competenze digitali, #scovare i talenti nelle persone scartate, #invitare i manager di successo a cedere potere a giovani e supportare chi pensa di non averne.

Se qualcuno vuole scrivermi e commentare, criticare, fare proposte è ben accetto. Questo dà un senso a ciò che io cerco di fare sia con i ragazzi con cui sto vivendo non ancora espulsi dal mondo dei grandi sia con i grandi che non riescono a riprendere una posizione di piena dignità umana.

Buon inizio del cammino!

Nella seconda parte riporto i pezzo di Tim Ingold





[1] Marco Aime è un antropologo tra i più competenti di Africa ma anche del senso pedagogico del viaggio. Scrive anche per Nigrizia ed è ascoltato da Missionari e Cooperanti Laici. Un suo libro interessante sugli adolescenti è  «La fatica di diventare grandi. La scomparsa dei riti di passaggio» di M. Aime e G. P Charmet. Einaudi

[2] Tim Ingold è uno degli antropologi più influenti. Insegna a in Inghilterra

[3] Coloro che invece sono completamente fuori dal mercato del lavoro sono di varia provenienza. Ce ne sono stati  negli anni recenti di  gruppi ampi di “disoccupati certificati” e di “disoccupati grigi” (ovvero Partite iva, Non tutelati, NEET, ecc). Me ne sono occupato 5 anni fa nel pieno della crisi del 2008 e quando comparivano alcuni segnali di ripresa, con il libro “Lavorare ancora. La rigenerazione degli over 50 in Italia”. E’ un libro che ha  ricevuto molti consensi da esperti di Psicologia del lavoro e da Operatori dei Centri dell’impiego e Agenzie per il lavoro. Ma poi i  grandi Player hanno scelto di proseguire con vecchi paradigmi. Riempire vasi, fare la diagnosi del gap di competenze,  organizzare a pioggia seminari su tematiche che erano di  moda ( si va da I.4.0, alla vecchia autoimprenditorialità, alle soft skill con interessanti modelli tipo centri fitness, qualche corso di lingua, la vecchia informatica, ecc). Il tutto bagnato da litri di sussidi  economici di varia  specie.

“Organizzare un Master per insegnare a un povero a chiedere aiuti potrebbe essere una soluzione “, sosteneva  Tiziano Vecchiato direttore di Fondazione Zancan già nel 2012. Solo nella citta di Milano si erano recensiti  nel 2012,  più di 50 poli che erogavano sussidi, in tanti casi con regole proprie e quasi sempre senza sinergia gli uni con gli altri. Ma questo è lo sconfino nel mondo della povertà che non è il focus di questa nota.

L’inizio di quel libro del 2016 aveva come incipit “L’uomo è la ricchezza”

Da lì derivavano tutte le analisi e le proposte che sono contenute.

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