Mai mentire sull'età!

Mai mentire sull'età!

La distanza fra propositi e realtà in azienda quando si tratta di lavoratori Over 45

Wikipedia spiega che Steve Pilot, ripreso nella foto, è un modello, autore, istruttore di fitness e nutrizionista vegano tedesco con sede a Bangkok, in Tailandia. Come modello è apparso, fra le altre, sulla rivista Muscle and Fitness, Center Stage Magazine e Men's Health.

Steve ha più di quarant’anni, e nel suo specifico settore è decisamente un “lavoratore anziano”. Eppure, non fatica ad avere mercato, ed anzi la qualità delle sue prestazioni come professionista del fitness lo rendono un operatore ambito e molto ricercato. Non si tratta di un caso isolato, e testimonia l’adattamento dell’industria del fitness ad una mutata situazione di contesto. Ma quante altre industrie si stanno dimostrando così reattive? Davvero, ad esempio nel mondo finanziario, i selezionatori sono pronti a destinare una posizione vacante – ceteris paribus – a una cinquantenne piuttosto che a una neolaureata? Quella degli elder workers, e più in generale del cosiddetto Ageism è una tematica trasversale a tutte le organizzazioni, e forse è venuto il momento di riconsiderare il rapporto che le aziende hanno con una forza lavoro qualificata, motivata e …in forza che hanno già: i lavoratori Over45. Resta da capire a quale punto del percorso che dalla consapevolezza porta all’azione ci troviamo in questo momento. In questo articolo riporto le risposte a tre semplici ma insidiose domande che ho rivolto a quattro manager di grande competenza ed esperienza italiana ed internazionale:

· Havana Abid , Transformation Officer for Global Operations, Senior Executive with responsibilities worldwide (HA nel testo)

· Anna Calvenzi , Executive Coach and Counsellor at Acoté (AC)

· Gabriele Giambrone , International lawyer, owner and partner @giambronelaw (GG)

· Leonardo Caporarello , Deputy Dean for Lifelong Learning and Professor of Negotiation Practice @SDA Bocconi School of Management; Delegate Rector for elearning Università Bocconi

 

PP: Le aziende operanti nelle economie occidentali più avanzate stanno affrontando un’evoluzione demografica del proprio personale mai verificatasi in precedenza, e della quale sembrano essersi rese conto solo di recente. Da un lato, l'età media dei dipendenti si alza, in ragione soprattutto di un accesso al pensionamento più rallentato e meno conveniente che in passato, mentre dall’altro la quantità di dipendenti under 45 qualificati si assottiglia, a causa di un accesso al mondo del lavoro instabile e difficoltoso. Inoltre, la longevità professionale, intesa come capacità di garantire efficienza nel proprio lavoro oltre i 60 anni, aumenta per effetto del miglioramento generale della qualità della vita. In sostanza, i lavoratori anziani in azienda sono più numerosi, hanno poca concorrenza interna e sono in ottime condizioni psicofisiche. Secondo voi, le aziende dovrebbero cominciare a realizzare che il loro futuro sono.... i vecchi dipendenti?

HA: Penso che tu abbia sollevato un tema interessante. È indubbio che l'invecchiamento della popolazione, un migliore accesso all'assistenza sanitaria e una migliore consapevolezza del benessere ci abbiano portato ad avere una popolazione che vive più a lungo. E che per mantenere il proprio stile di vita ha bisogno di continuare a lavorare o di risparmiare una cifra sufficiente a ritirarsi. Per contro, i datori di lavoro ora hanno una scelta ancora più ampia di dipendenti rispetto a prima. Ora puoi assumere con il salario minimo i giovani che iniziano una carriera o investire in lavoratori qualificati più anziani. Non credo che il futuro siano solo i vecchi dipendenti - alla fine lasceranno l'attività perché non possono lavorare per sempre - è anche vero che mentre molti possono e contribuiranno oltre i 65 anni - l'indipendenza finanziaria sta dando loro la possibilità di scegliere come desiderano contribuire. Molti dipendenti più anziani ed esperti potrebbero non voler svolgere un lavoro dalle nove alle cinque, cinque giorni alla settimana, ma invece condividere le proprie capacità ed esperienze in periodi più piccoli/brevi come lavoro part-time, orari ridotti, posizioni non dirigenziali. In pratica, gradiscono degli assetti che consentano loro bilanciare il lavoro che vogliono e sanno fare con le attività che desiderano intraprendere nel privato. Penso che i datori di lavoro stiano pensando di più a questo che all’estensione della presenza abituale degli over 60, all’interno della loro agenda D&I. Non si tratta più solo di uomini contro donne o bianchi contro neri sul posto di lavoro. Sempre più D&I include lavoratori anziani, neuro diversità e molti altri tipi di inclusione. Quindi penso che le aziende progressiste siano attente a questo e stiano iniziando a esplorare opzioni di lavoro più flessibili, a pianificare programmi in cui i lavoratori più anziani gestiscono il tirocinio dei nuovi lavoratori, a trovare le competenze loro necessarie reperendole in ruoli diversi e non in dipendenti diversi. Il vero problema che vedo è che ci sono meno nuove posizioni disponibili molto più basso di quello di una volta. Ricordo che nel 1990 questo dato nelle aziende era di circa il 20%, mentre nella maggior parte delle aziende in cui ho lavorato di recente si aggira fra il 7 e l’8%, il che significa che le persone rimangono al lavoro più a lungo. Perché? Penso che sia in gran parte dovuto ai cambiamenti della società: i motivi per cui le persone dovevano "rinunciare al lavoro" in passato oggi si affrontano in maniera diversa. Migliori politiche delle risorse umane, ambienti di lavoro più inclusivi e flessibili, persone che ora possono permettersi l'assistenza all'infanzia e/o ai genitori anziani. Pertanto, rinunciare al lavoro non è più visto come qualcosa che devi fare per sostenere le tue altre responsabilità. Penso che il vero cambiamento ci sarà quando i datori di lavoro assumeranno orientandosi non sull’età, il background, gli studi, ma le abilità che il candidato può portare in dote al ruolo. Un numero sempre maggiore di datori di lavoro più grandi come KPMG e IBM stanno assumendo persone che hanno lasciato la scuola e scelgono di affidarli alle proprie università interne per abilitarli nei loro strumenti, nei loro sistemi, nei loro modi di lavorare in modo da essere nel pieno controllo del futuro della loro azienda. Un altro esempio è che alcune aziende più piccole tendono ad assumere persone che cercano il loro secondo o terzo lavoro in modo che sappiano che hanno già le competenze per essere efficaci sul posto di lavoro. Non credo che il futuro siano solo i vecchi dipendenti, il futuro è ovunque ci sia l'abilità ricercata.

AC: In effetti spesso i dipendenti – specialmente oltre i cinquanta – non sono adeguatamente considerati dalle aziende. Esiste un antico pregiudizio a questo proposito - che continua a resistere - per cui chi è oltre una certa fascia di età non è più produttivo né motivato. In realtà non si considerano vari fattori. Uno: le persone – specialmente la sempre più ampia fascia degli universitari – entrano più tardi nel mondo del lavoro e quindi più tardi ne vengono consumati. Del resto la vita media si è allungata e questo è un elemento di cui non si può non tenere conto. Due: le persone con maggiore anzianità aziendale hanno anche maggiore esperienza e sono portatori di conoscenze che – se non adeguatamente trasmesse ai giovani – rischiano di andare perdute il che può rivelarsi un grosso danno. Non tutto il know-how può essere trascritto e trasformato in procedure. Esiste la famosa “conoscenza tacita” che è uno dei tesori più importanti e più sottovalutati dalle organizzazioni. Nella nostra esperienza, le persone con ampia esperienza aziendale sono spesso estremamente motivate all’idea di fare da mentori ai junior. Anzi, molte lamentano il fatto che la società in cui lavorano non consideri abbastanza questa loro propensione.

GG: Partiamo da una semplice e immediata analisi: Dal 2008 ad oggi (circa 15 anni) siamo stati colpiti da forti crisi economiche e altrettanto drammatiche crisi socio/sanitarie. Questo ha portato a stravolgimenti sociali e quindi anche nel mondo lavoro, con rivoluzionamenti non indifferenti delle attività aziendali: dalla micro e macro impresa passando per le PMI viene generato parecchio stress quotidiano (passiamo almeno otto ore al giorno al lavoro). Oggi il mondo del lavoro è molto frazionato e si divide in diverse categorie di lavoratori che noi imprenditori ci troviamo quotidianamente davanti. Si parla di Work-Bees: quei lavoratori che non sono motivati dallo status o dall’autonomia, e preferiscono stabilità e pur avendo spirito di squadra spesso mancano di proattività. Abbiamo gli Explorers, che cercano carriere super stimolanti come anche i Pioneers, che si identificano profondamente con il loro lavoro attraverso cui desiderano cambiare il mondo. Come studio legale non è facile trovare professionisti validi che racchiudano un po' delle caratteristiche su descritte proprio perché i “giovani” spesso sono sì pieni di entusiasmo ma cercano nelle scorciatoie guadagni facili (vedi quello che promette il mondo Crypto) dimenticando quello che invece gli Over 40 hanno fatto: un percorso fatto da conoscenza, capacità ed esperienza abbinata alla velocità di esecuzione. Questo oggi è il valore per un imprenditore e quello che mi aspetto da un collaboratore: conoscenza capacità e rapidità di esecuzione.

LC: Il fenomeno naturalmente esiste e ci sono vari studi e proiezioni, sulla distribuzione demografica della forza lavoro, del prossimo decennio. La domanda che il management dovrebbe porsi è come sta preparando l’organizzazione per gestire al meglio il contributo di tutti i suoi collaboratori. Sappiamo bene come la motivazione, le competenze, l’esperienza, il clima organizzativo sono – tra gli altri – fattori chiave per la “buona riuscita” aziendale. Per cui è opportuno, anzi è necessario, dedicare la giusta attenzione sin da subito, a come combinare i fattori appena menzionati in modo da creare percorsi professionali in cui ognuno di noi possa essere messo nelle condizioni di esprimere il proprio valore utile al raggiungimento degli obiettivi aziendali. Questo, in altri termini, fa parte del concetto più ampio di “lifelong learning”.

PP: I Senior e Middle Manager in questa fase storica si trovano ad avere a che fare con la gestione di diversità molteplici: genere, età, religione, esperienze, sono molti gli elementi di Diversity da gestire, con una pressione regolatoria interna all'azienda che sta crescendo. Policy, corsi, coaching, e mentoring sono coadiuvanti dispensati senza risparmio affinché la catena di comando interna sia sempre più allineata alle aspettative di uno Storytelling di inclusione ormai universalmente accettato. A suo giudizio, come stanno realmente reagendo i manager? Stanno davvero recependo e attuando quel cambio di mentalità che deve portarli ad effettuare - ad esempio - una valutazione di performance di un collaboratore senza minimamente considerare la sua appartenenza ad una particolare comunità minoritaria (che magari personalmente disapprova)? Oppure si stanno solo mimetizzando, aderendo ai cambiamenti nella forma ma mantenendo nel concreto atteggiamenti pregressi magari assimilati da chi lo ha a sua volta preceduto? Esiste un modo per "misurare" il grado di maturazione di un manager rispetto alla Diversity?

HA: Al momento c'è molta attenzione sulla D&I e penso che la maggior parte dei manager stia ancora cercando di trovare la propria strada per gestirla. Attraverso la formazione, la discussione aperta, l'essere a disagio possiamo aiutare a superare le sfide della gestione di una forza lavoro diversificata nello stesso modo in cui abbiamo superato sfide simili quando le donne sono entrate per la prima volta in un mondo del lavoro fortemente sessista nel dopoguerra. Abbiamo investito nella formazione sulla diversità per tutti i manager, incoraggiando la condivisione di storie culture diverse e tradizioni diverse, ma cambiare è molto facile per alcuni mentre è difficilissimo per altri. Penso che la società in cui viviamo influenzi la velocità con cui le aziende accetteranno questo. Credo fermamente in ciò che viene misurato, quindi penso che avere metriche e obiettivi chiari di cui discutere apertamente su quanto sia vario il tuo posto di lavoro e cosa stai cercando aiuti a creare la sensazione che siamo seri. Questo è un enorme cambiamento di comportamento e la maggior parte dei manager lo sta ancora affrontando solo a parole. Ma come dico ai miei manager "che senso ha essere un gigante se non puoi fare la differenza?". John Amechi è un noto oratore su questo argomento, quindi vale la pena ascoltare alcune delle sue idee che insegna a molti dirigenti su come essere più consapevoli di D&I.

AC: Come sempre, una cosa è il dichiarato, una cosa l’agito. Tutti gli esseri umani – nessuno escluso – possono cadere facilmente in bias ovvero in distorsioni cognitive che, per definizione, sono inconsapevoli. Non c’entra quanto io sia aperto alla Diversity a livello teorico e razionale: alla prova dei fatti le mie emozioni e le mie convinzioni radicate tenderanno a prevalere. Ricordiamoci il meccanismo psicologico così magistralmente descritto nel film “Indovina chi viene a cena”. I genitori della protagonista sono persone mature, illuminate e sinceramente convinte di essere aperte verso i neri. Questo finché la figlia non dichiara di volere sposare un medico nero il che – nel contesto descritto dalla pellicola - non può non avere impatti sulla dimensione sociale dell’intera famiglia. E’ solo quando la diversità dell'altro impatta su di noi che scopriamo il nostro vero grado di tolleranza: nel mondo personale come in quello aziendale.

GG: Oggi si parla di Diversity nel mondo del lavoro sotto varie forme e in numerosi ambiti. Iniziamo col dire che al termine Diversity, e cioè il riconoscimento e la valorizzazione delle diversità che le persone possono esprimere, si deve abbinare l’espressione Inclusion sottolineando l’importanza delle politiche di D&I che un’impresa deve avere per incoraggiare la pluralità di genere o la diversità etnica o religiosa. Credo che questi concetti debbano essere comuni a tutti gli i lavoratori e per di più gli stessi manager, responsabili dei dipartimenti, devono averli come cardini del proprio lavoro quotidiano. Il “Diversity Management” è oggi un fondamento e sempre di più lo riscontro tra le aziende che incontro, nei meeting che organizzo, finanche nei semplici incontri di networking. Misurare il grado di maturazione non è facile ma posso confermare che questi concetti sono sempre più inseriti all’interno delle aziende.

LC: Le differenze, di ogni forma e tipo, possono rappresentare un’enorme opportunità di crescita e sviluppo professionale sia dei singoli sia dell’organizzazione nel suo insieme. Affinché questo accada, oltre alle iniziative già citate nella domanda (es. policy, corsi, coaching) è necessario che si crei un mindset che consenta ai membri dell’organizzazione di esprimere e utilizzare tutto il valore che può derivare dall’eterogeneità. Questo dovrebbe avvenire perché si riconosce chiaramente il valore potenziale e non solo perché “c’è una policy che lo richiede”. Come qualunque cambiamento, anche nel caso dell’adozione di nuovo mindset, è necessario del tempo per comprendere, analizzare, far proprio un nuovo modo di pensare e di agire. Tipicamente sono processi di evoluzione che richiedono tempi lunghi prima di raggiungere “una destinazione” per cui prima si inizia a lavorarci, meglio è. Come sappiamo, molte organizzazioni stanno lavorando intensamente in questa direzione. La strada è lunga per cui è importante che non si abbassi il livello di priorità, che si continui a confrontarci in merito e si mettano in evidenza i benefici che ne derivano.

PP: Quando si parla di Ageism, lo Storytelling imperante sottolinea la capacità delle aziende di valorizzare anche la componente Over 45 della propria popolazione aziendale. Ma le ricerche che invece chiedono conto di questo proprio agli Over 45 riportano una realtà molto diversa. Una realtà fatta di tempi di ricollocazione doppi rispetto a quelli della componente Under 45, e che spesso termina con la rinuncia alla ricerca. Di progressi di carriera impossibili oltre questa soglia, di un limbo in cui - se non si ha già avuto accesso a posizioni di responsabilità che abilitano una carriera successiva - si è troppo vecchi per aspirare a un progresso e troppo giovani per mirare alla pensione. Per non parlare delle selezioni per ruoli rispetto ai quali si è qualificati, ma che invariabilmente vengono assegnati a candidati meno qualificati ma più giovani. Cosa consiglierebbe di fare a un'azienda in procinto di aprire una selezione per un ruolo impiegatizio qualificato?

HA: Dipende molto dalla cultura e dalla leadership dal CEO in giù. Se l'azienda sta cercando di concentrarsi sulle competenze, allora abbraccerà quelle competenze da qualsiasi luogo provengano, sia che abbiano più di 45 o meno di 20 anni. Al contrario, molte aziende sono ancora bloccate nel vecchio modello tradizionale dei giovani laureati e va bene, ma l'evoluzione delle competenze è la chiave. Una recente ricerca condotta dall'Università di Oxford ha mostrato che l'11% dei neolaureati è considerato idoneo al lavoro dai datori di lavoro rispetto all'87% dei prèsidi universitari. Questa enorme differenza è il reale problema. Quello che stiamo creando dalle nostre università/scuole/college sono lavoratori non adatti alle competenze e al ritmo ai quali si sta muovendo l'industria. Ecco perché l'automazione sta prendendo il sopravvento. Affinché l'automazione funzioni, è necessario personale esperto nella programmazione, nella gestione delle eccezioni e nel miglioramento della robotica. Nonostante tutte queste rivoluzioni tecnologiche che accadono intorno a noi, la realtà è che i datori di lavoro vogliono lavoratori che non siano solo qualificati, ma continuino ad apprendere, aggiungendo più competenze ai loro profili, offrendo sempre di più alla propria azienda. Non credo che gli Over 45 pensino di dover tornare a scuola, ma molti lo fanno per sviluppare le competenze necessarie per il prossimo decennio, non per i decenni passati. È una società ancora molto antiquata quella in cui viviamo, abbiamo ancora aziende razziste, sessiste e di parte - cambiare il modo in cui un'azienda sviluppa e coltiva il talento ha bisogno di azioni non di parole secondo me quindi se la realtà di un'azienda è che gli Over 45 stanno ancora lottando per progredire allora quella non è un'azienda progressista ed è tempo di muoversi e trovarne una che valorizzi le competenze che i lavoratori esperti possono offrire.

AC: A questa azienda consiglierei di considerare innanzitutto – prima di guardare fuori – se per caso non ha già "in casa” le competenze di cui ha bisogno. Ci capita di incontrare manager sconcertati perché la loro azienda ha assunto un candidato esterno per una posizione che era ambita da più persone all’interno. Siamo proprio sicuri che nessuna di queste ultime fosse adatta a quel ruolo, indipendentemente dall’età? Seconda cosa: le persone che entrano in una nuova posizione in età matura tendono a essere più posate e meno divorate dall’ambizione rispetto a un giovane; hanno voglia di fare bene e con coscienza il loro lavoro e non fremono per crescere a tutti i costi. Questo per un’azienda che offre limitate possibilità di carriera può rappresentare un considerevole vantaggio.

GG: Beh non è mai facile dare dei consigli del genere e soprattutto bisognerebbe capire la tipologia di azienda, cosa cerca e soprattutto che tipologia di dipendenti che questa realtà ha. Una cosa è certa, gli Over 45 dovrebbero aver maturato un’esperienza tale (immagino con almeno 15 anni di lavoro alle spalle) da essere pronti a dare valore commerciale (passatemi il termine) all’azienda stessa. Ovviamente maggiore è la seniority maggiore è il salary richiesto ma questa è un scelta aziendale che dipende dal rapporto costi benefici e dal budget a disposizione. Quindi Over 45 ma di valore.

LC: Le aziende dovrebbero chiedersi – come accennavo già nella risposta alla prima domanda – quanto abbiano creato le condizioni per una continua crescita professionale, in un ambiente stimolante e verso il quale si è motivati a voler contribuire. Se si è lavorato su questo fronte, allora le preoccupazioni di avere un numero elevato di colleghi Over 45 dovrebbero venire meno. Se questo non è accaduto, è piuttosto urgente lavorarci, guardare al futuro e capire come poter crescere tutti insieme per affrontare con successo le prossime sfide e, di conseguenza, bilanciare opportunamente il coinvolgimento dei collaboratori alle diverse sfide, progetti e iniziative professionali. Saper combinare l’esperienza con le competenze, la curiosità, l’interesse e la motivazione a “contribuire a realizzare la missione aziendale” sono “ingredienti”, sebbene dosati in modo diverso, validi per tutti i collaboratori, qualunque età.

Purtroppo gli utili aziendali non passano più per il prodotto venduto ma per i risparmi di spesa. E allora vai con lo smart working, il licenziamento disciplinare creato ad hoc con la complicità dei sindacati, gli scivoli che altro non sono che cassa integrazione mascherata. Licenziati dipendenti over 50 che grazie a lunghe carriere costano tanto si assumono giovani di belle speranze a 1.000 euro al mese . Dimenticavo questo non vale per i figli degli amici.

Andrea Cicolani

Mondo Insurance a 360°, Gestione e sviluppo canali, BD&Sales, Risk Management, P&C, Life, Employee Benefit, Mobility Ecosystem, IoT Motor Insurance

2 anni

Purtroppo è un punto attuale che le realtà nelle grandi aziende devono utilizzare per rivedere i percorso di carriera…la seniority solo con forte competenza è imprescindibile per innovare..lo junior del settore può dare una ventata di fresco ma non incide quasi mai con un cambio di passo, ma agevola i cambiamenti e può essere da volano o challenge nella trasformazione dell’ambiente

Giovanni Peccati

Ingegneria gestionale

2 anni

Una società vecchia guarda e lambisce modelli vecchi. Tutto qui. È solo la realtà nei nostri tempi. Nella prima metà del 900 le giovani menti elaboravano la fisica quantistica, oggi si fanno ispirare da Facebook. Fortunatamente il tempo è ciclico. Viviamo gli anni di Ottaviano Cesare Augusto, ma torneranno quelli di Giulio Cesare.

Domenica Lista

Corporate Secretary - corporate affairs governance expert -General Counsel -Stakeholders management- Board member - Qualified Risk Director

2 anni

Paolo come sempre cogli il punto! Molti pensano che l’innovazione parta dai giovani e solo da loro in realtà questo modo di pensare è proprio vecchio! Innovazione deriva da esperienze variegate diverse in termini di sesso eta abitudini vissuti classe sociale e livello economico insomma da commistioni confronti diversita a 360 e viene davvero da ridere quando leggo c’è bisogno di innovare assumiamo under 30 che puo essere una misura ma che da sola non porta da nessunissima parte ! Anna Calvenzi sempre sul pezzo

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