Metaverso e dintorni
Negli ultimi tempi si è scritto, letto e parlato molto di metaverso, riscoprendo un concetto non nuovo, contestualizzato alla luce dell’attuale maturità tecnologica. Intorno al metaverso si è sviluppato un dibattito primariamente polarizzato tra preoccupazione e attesa. L’interrogativo più diffuso è stato: come si trasformerà la nostra identità nel metaverso?
Credo che ogni discorso sull’identità non possa che partire dalla ricerca. Ricerca sulle comunità, virtuali e non, sulla nostra specie e su quello che sapremo fare degli artefatti, prodotti derivati da processi trasformativi dell’essere umano, che inventiamo.
Essere in più luoghi e non essere allo stesso tempo. Che cosa significa oggi esistenza? Corpo o mente? Antico dualismo. Sicuramente coesistere in dimensioni multiple stimola interessanti riflessioni al confine del concetto di identità. L’effetto rispecchiamento generato da un avatar può essere molto rilevante, persistente e pervasivo.
Penso che ogni contrapposizione tra tecnofili e tecnofobici rischi di reificare l’approccio deterministico che può limitare l’osservazione degli effetti dell’introduzione di una tecnologia astenendosi da giudizi basati su generalizzazioni e polarizzazioni. Il processo di socializzazione con una tecnologia è complesso e influenzato da sistemi simbolici, valori, rappresentazioni, meccanismi di funzionamento della memoria e della mente, bias cognitivi.
Lo abbiamo visto, e lo vediamo ancora oggi, durante questi ultimi due anni. La tecnologia ci ha permesso di continuare a comunicare seppur in modo diverso ma, ancora di più, in contesti sanitari ha permesso alle persone di restare in contatto con i propri affetti. Inimmaginabile, solo qualche anno fa.
Alcune ricerche restituiscono uno scenario sociale contraddistinto dall’aumento dell’incertezza, della mancanza di progettualità, della difficoltà di sviluppare e mantenere relazioni sociali. Indipendentemente dagli ultimi due anni, sconvolti dalle conseguenze del Covid-19, alcuni correlano questi fenomeni anche alla diffusione delle tecnologie. Altre ricerche dimostrano parimenti, però, un certo grado di correlazione positiva tra fenomeni quali la dipendenza da internet e un minor grado di consapevolezza verso di sé e verso lo strumento. In altre parole, le persone più esposte sembrano essere quelle con le maggiori fragilità.
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Quando mi chiedono se l’evoluzione tecnologica del futuro sarà un rischio per l’aumento degli effetti definibili come negativi, da ricercatrice cerco di analizzare la storia della nostra specie, il trend della vita media e della speranza di vita, e mi vengono in mente le protesi create con la stampa 3D, colorate e portate con orgoglio come trofei, che ridanno progettualità e speranza a bambine e bambini che hanno perso la propria mano a causa di uno Ied (Improvised Esplosive Device), donne e uomini non più esposti a lavori pericolosi o, ancora, persone che, prima costrette all’immobilità, oggi si possono muovere con esoscheletri o protesi robotiche.
Questo non significa che tutto sia riconducibile a «magnifiche sorti e progressive» e che non ci siano rischi. Quando si parla di tecnologia, però, si può correre il rischio di restituirne i tratti di un miscuglio omogeneo per proprietà, densità, applicazioni. Ma la tecnologia, anzi le tecnologie, non sono tutte uguali, così come non sono uguali le persone che le pensano, le progettano e le realizzano.
Certamente ci sono anche rischi. Quando chiesero a Marie Curie perché non avesse brevettato la sua scoperta rispose: «L’umanità ha bisogno di uomini d’azione, ma anche bisogno di sognatori per i quali perseguire disinteressatamente un fine è altrettanto imperioso quanto è per loro impossibile pensare al proprio profitto».
Non so se il futuro sarà radioso o distopico. Preferisco rifuggire classificazioni che possano condurre a polarizzazioni e osservare il presente per descriverlo e, quando riesco, interpretarlo. Tendenzialmente, però, lo confesso pubblicamente, su un differenziale semantico tendo a posizionarmi sulla parte ottimista della scala graduata.
Spesso rischiamo di dimenticarci che ogni tecnologia è frutto e prodotto dell’ingegno umano e non viceversa. Se si considera il processo tecnologico nelle sue dinamiche di interazione sociale, è un processo che necessita di riflessioni etiche e di regolazione. Negli ultimi tempi inizia a farsi strada la necessità di un nuovo umanesimo che ricomponga la frattura, disfunzionale, tra ciò che è ‘scienza’ e ciò che è società, comunità per allargare alla collettività anche il momento della progettazione e non solo dell’utilizzo.
Resto convinta che la tecnologia possa migliorare la condizione umana ma sub conditione di liberarci da ogni possibile illusione ottica della coscienza affinché la tecnologia non diventi un dogma ma uno strumento inventato dall’essere umano per l’essere umano per assicurare il benessere in modo equamente distribuito.