Nostalgia della comunicazione social aziendale
Complice l'algoritmo che in questi giorni mi presenta tanti post dei cantanti presenti a Sanremo, ho iniziato a scrivere questo post perché ho intercettato una delle "banalità da agenzia social" proposta su una pagina di un brand che però non è un'azienda di prodotti o servizi, ma è un artista. L'ho trovato sconfortante. Semplicemente sconfortante.
Una cosa che ricordo benissimo - e che mi piaceva un sacco - di quando una quindicina di anni fa abbiamo iniziato a conoscere, imparare, e vivere i social sotto ogni loro forma, concentrandoci poi anche su come questi strumenti potevano giovare ai brand è che, appunto per l'aspetto legato alla comunicazione corporate, si parlava di "ascolto della rete".
I brand dovevano essere bravi a intercettare le conversazioni e ad interpretare il sentiment degli utenti. Intervenire all'occorrenza, essere pronti quando chiamati in causa. Ricordo che uno dei concetti che feci mio e cercavo di condividere con tutti, era quello degli account social aziendali visti come info-point digitali, a beneficio di tutti gli utenti che intercettavano il brand, e a beneficio ovviamente del brand stesso che poteva diffondere news ed essere utile ai clienti in ogni momento e da qualsiasi parte del mondo loro avrebbero chiesto supporto. Solo in ultima istanza, e solo con discrezione, cercando di essere sempre opportuni, i brand cercavano di stimolare le conversazioni. Era bellissimo.
"Ascolto della rete" è stato il concetto che in quegli anni mi ha spinto ad appassionarmi e a studiare il corporate branding. Ricordo iniziative bellissime, casi di studio positivi e altrettanti negativi. Si faceva scuola in tutti i sensi: si imparava e si insegnava. E io andavo fiero delle pagine del mio brand, di quello che facevo, di come lo facevo perché le persone lo apprezzavano, e dei risultati concreti che quelle azioni - che pian piano diventarono strategiche - generavano.
Oggi non è più così. I brand online non ascoltano più. Da quando il senso della presenza dei brand online è passato dall'essere quello di ascoltatore a quello di "animatore", me ne sono totalmente distaccato. Disamorato. Certo per i miei brand sarebbe utile essere presenti, attivi. Ogni tanto ci provo, mi attivo io prima di ri-attivare i profili con l'ausilio di qualcuno che lo fa per mestiere. Ma poi, in tutta onestà, a me piace specchiarmi in quello che produco, e finisco sempre per concludere che le cose o le fai bene o è meglio che non le fai; anche perché parliamoci chiaro: il peso delle conversazioni che nascono sulle pagine social dei brand, soprattutto quelle più popolate e attive, è inversamente proporzionale all'utilità che le stesse conversazioni hanno sia per gli utenti che per i brand.
Non mi piace più. Non mi interessa più. L'unica via d'uscita per tentare, come brand, di esserci con intelligenza ed essendo funzionali è legata sempre ad uno dei concetti primordiali di questa nostra presenza sui social in ottica brand: essere editori e produttori di contenuti. Ma per farlo occorre rischiare di prendere posizioni, continuare a sperimentare, sedimentare un'identità. Farlo bene è molto dispendioso, e occorrono competenze che chi si occupa di comunicazione social oggi non ha, non ha interesse a studiare, e giustamente non ha neanche interesse a proporre e vendere perché chi li ingaggia non vuole rischiare tanto.
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La cosa frustrante è che chi invece le ha non è in grado di praticarle. E mi ci metto a capo, con una colpa maggiore: quella di poterlo fare in piena autonomia decisionale.
Per questo ci ritroviamo solo animatori a gestire pagine di brand che appaiono banali, mediocri, anche quando i brand sono tutt'altro che banali e mediocri. È brutto. L'incomprensibile urgenza di esserci e di essere come tutti. Inutilmente. E per esserlo efficacemente, affidare la comunicazione e la gestione degli account social a una comune web agency che comunica secondo standard che più convenzionali non potrebbero ormai essere.
E ricordo allora quando si parlava pure di "comunicazione non convenzionale". Che brutto declino.
Si è sbagliato tutto all'epoca: quando per tentare di monetizzare l'ottimo lavoro che si faceva ma che i clienti, non capendolo, non volevano pagare il dovuto, si è iniziato a trattare la formazione come il prodotto più redditizio. Da un lato si è iniziato ad accaparrarsi una marea di clienti scemi perché si sa, il fatturato sulla quantità fa comunque comodo (giustamente) a tutte le aziende, e dall'altro lato si è delegato alla formazione il vero utile.
Il problema è che, mentre si attuava questa strategia per far sopravvivere le nostre agenzie di comunicazione, non si è stati bravi ad educare i clienti, e si è finiti invece ad insegnare agli studenti come accontentare i clienti scemi. Abbiamo fatto il contrario di quello che dovevamo fare. E oggi, quegli studenti che all'epoca erano giovanissimi non sanno neanche di cosa si parla quando cerchiamo di discutere seriamente di comunicazione aziendale.