PALESTINA. REGGE LA TREGUA. MA IL FUTURO RIMANE INCERTO

PALESTINA. REGGE LA TREGUA. MA IL FUTURO RIMANE INCERTO

di Dario Rivolta * – da: NOTIZIEGEOPOLITICHE.NET

A quanto sembra la tregua stabilita tra Israele ed Hamas il 17 gennaio scorso sta tenendo, e i previsti scambi tra prigionieri detenuti nelle prigioni israeliane e alcuni degli ostaggi sequestrati da Hamas il 7 ottobre 2023 si sono realizzati. Ovviamente ciò non pregiudica cosa potrebbe succedere nell’immediato futuro durante e dopo l’interruzione ufficiale dei combattimenti che dovrebbe durare 42 giorni, quelli necessari affinché tutti gli ostaggi siano liberati e altri prigionieri di Israele rilasciati. Questi giorni dovrebbero essere necessari anche per decidere cosa ne sarà di Gaza e quali rapporti si potranno instaurare tra i due popoli. Netanyahu ha già detto che basterebbe una minima violazione della tregua da parte dei palestinesi per autorizzare l’esercito a far ricominciare le azioni belliche ed è naturale che la minaccia sia reciproca. Di là dagli accordi formali tra le due parti, sempre che siano sinceri, nessuno può escludere che facinorosi interni ai due schieramenti possano causare volutamente incidenti che obbligherebbero l’altro a rompere i patti raggiunti. Naturalmente tutti gli osservatori si augurano che la tregua tenga e che davvero si cominci a pensare a cosa fare nel futuro. Eppure è proprio questo futuro l’incertezza maggiore che si ha davanti. Anche il papa, come la maggior parte dei politici di quasi tutti i Paesi, continuano a ripetere che ora si dovrà arrivare finalmente alla soluzione prospettata dei “Due Stati” che coesistano, ma… Se vogliamo essere realisti occorre prendere atto che, seppur non impossibile in linea di principio, è molto improbabile che ci si incammini veramente verso una pace permanente. Due Stati? Certamente è un’ottima soluzione, ma quali confini avrebbero? Saranno possibili due eserciti, uno di ciascuno? Chi garantirà la sicurezza interna nella parte palestinese? Loro stessi o saranno sotto tutela delle forze di polizia di Israele? Quale potrebbe essere il futuro ruolo di Hamas nel nuovo Stato? Che ruolo accetteranno di rivestire le fazioni estremiste palestinesi che continuano a negare l’esistenza dello Stato israeliano? E come reagiranno i fanatici religiosi ebrei che continuano a credere che tutta la terra “dal Giordano al Mare” sia stata loro assegnata da Dio in persona? Soprattutto: se la Cisgiordania dovesse essere parte del futuro Stato dei palestinesi, cosa faranno e come reagiranno i 700mi acoloni abusivi che hanno sottratto le terre con la violenza a chi le coltivava e vi abitava prima dei loro atti illegali protetti dall’esercito con la stella di Davide? Oppure il futuro Stato Palestinese si limiterà a una sovranità territorialmente limitata con tante exclave “straniere” al suo interno? E anche qualora, in un qualche modo, si trovassero soluzioni a quanto sopra, chi governerebbe il futuro Stato Palestinese vista la estrema impopolarità (e la corruzione, e l’inefficienza) dell’Autorità Nazionale Palestinese? Comunque sia, qualora si dovesse ammettere che la soluzione dei due Stati non sia percorribile allora non resterebbe che pensare ad uno Stato unico con capitale Gerusalemme e la presenza contemporanea di cittadini ebrei e palestinesi. Purtroppo, anche questa ipotesi è realisticamente poco percorribile alle condizioni attuali. Innanzitutto perché la maggioranza dello stesso governo Netanyahu ha fatto approvare una legge fondamentale che definisce Israele come lo Stato degli ebrei e, quindi, chi non è “ebreo” diventa per definizione un “ospite”. Inoltre, anche gli israeliani geneticamente ebrei, magari più disponibili a trovare qualche accomodamento, sono per lo più fortemente contrari a condividere il loro paese con una popolazione araba che, vista la differenza tra i tassi di natalità, diventerebbe in breve tempo maggioranza. Cosa succederà, dunque? Verso quale soluzione ci si potrà incamminare? Rispondere a questa domanda non è facile per nessuno. Non va dimenticato, per di più, che lo stesso Netanyahu non ha molto interesse a che la situazione si normalizzi perché se si ritornasse alla vita normale è probabile che riprendano le proteste contro la sua volontà di sottomettere i vertici della magistratura al suo stesso potere per impedire così la ripresa del processo contro di lui per corruzione. Inoltre, quando dette inizio ai bombardamenti su Gaza, il suo intento dichiarato era di distruggere completamente Hamas ed è evidente a tutti che tale organizzazione, seppur mutilata ai vertici, esiste ancora e, forse, ha persino acquisito nuovi adepti tra coloro che cercano vendetta per quanto successo nella Striscia ai loro familiari e amici durante questo anno di guerra. La situazione non prospetta niente di meglio anche se allarghiamo lo sguardo al di fuori dei territori direttamente coinvolti. È risaputo che, per motivi totalmente comprensibili, né la Giordania né l’Egitto sono disponibili ad accogliere la popolazione palestinese al loro interno. Ad entrambi converrebbe la possibilità della nascita di uno Stato palestinese e si sono già dichiarati pronti ad aiutarlo. Anche gli Stati del Golfo auspicherebbero tale soluzione perché ciò accontenterebbe le pulsioni pro-palestinesi presenti tra le loro popolazioni. Inoltre, risolvere seppur formalmente il problema, consentirebbe a quei governi di allacciare (o ri-allacciare) i rapporti con Tel Aviv giudicati molto utili per lo sviluppo della propria economia senza urtare la sensibilità dell’opinione pubblica. Tuttavia, sia gli Stati confinanti che gli altri Stati arabi sanno benissimo quali siano le concrete difficoltà esistenti verso ogni soluzione possibile e tutti sperano che la prossima Presidenza americana inventi un qualche miracolo, oggi inimmaginabile, per chiudere la questione. Anche l’Iran, profondamente indebolito su tutti i fronti, si sta aspettando qualcosa dalla Presidenza Trump. Teheran ha perso la possibilità di continuare a nutrire Hezbollah in Libano attraverso la Siria, gli Houthi sono in forti difficoltà e Hamas non è in massima forma. È però all’interno che Teheran affronta i maggiori problemi: un’inflazione enorme, la moneta molto svalutata, corruzione ovunque ed economia in disfacimento nonostante i rapporti ottimizzati con Cina e Russia. La speranza che i vertici iraniani nutrono è che con Trump qualche spiraglio si apra. Che cosa esattamente possa essere non si sa perché, di là dalle dichiarazioni roboanti precedentemente espresse, il comportamento del tycoon resta un’incognita. È pur vero che subito dopo le elezioni Trump ha parlato telefonicamente con il Presidente Pezeshkian e ha perfino espresso i suoi auguri per Khamenei. Non è comunque un caso che gli ayatollah abbiano consentito che alla Presidenza arrivasse Pezeshkian, un personaggio considerato “moderato”. Anche se il vero potere nella politica internazionale resta nelle mani di Khamenei, il nuovo Presidente può, più di chi lo ha preceduto, offrirsi come interlocutore accettabile per tutti gli occidentali e in particolare per Trump. Costui già nella sua prima Presidenza e prima di disdire lo JCPOA aveva invitato a cena a New York l’allora presidente iraniano e, in seguito, alla Casa Bianca il Ministro degli Esteri. Quella volta gli iraniani rifiutarono anche perché non si fidavano degli americani e contavano sull’appoggio europeo per mantenere valido l’accordo. Ciò non avvenne e la situazione dell’Iran andò peggiorando su molti fronti. Ora, obbligati dalle circostanze, sembrano pronti a tentare nuove negoziazioni (Quali potrebbero essere gli oggetti di un eventuale accordo sarà l’oggetto di un futuro articolo) ma, se pure nuovi negoziati potrebbero cominciare, gli iraniani devono in qualche modo “salvare la faccia”. Tra i modi che consentirebbero di non ammettere la capitolazione totale, di là da altre considerazioni apparenti o sostanziali, sarà quello di mostrare di non aver rinunciato alla difesa dei diritti dei palestinesi. La questione è oltremodo complicata, ma se con qualche escamotage si riuscisse ad inventare una soluzione, ciò aprirebbe la porta perfino a migliori rapporti con Israele. Tutto lascia pensare, contro le apparenze e l’opinione dei più, che Trump sia veramente disponibile a negoziare con Teheran una soluzione positiva per i rapporti tra i due Paesi ma ciò richiederebbe il consenso sia degli israeliani che dei sauditi. Oltre che delle lobby pro-guerra e degli irriducibili che esistono dentro le stesse istituzioni americane e tra le file iraniane. Come si vede, anche se la tregua dovesse tenere e confermarsi nelle prossime settimane, niente è sicuro per i mesi che seguiranno.

 

Diciamo che è l'ennesimo disastro provocato dalla politica coloniale britannica

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