Per viaggiare nel mondo dei dati non servono nuovi mezzi, ma nuovi occhi

Per viaggiare nel mondo dei dati non servono nuovi mezzi, ma nuovi occhi

La frase “Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell'avere nuovi occhi”, estratta con una certa libertà di sintesi da “Alla ricerca del tempo perduto” di Marcel Proust è forse una delle più note e usate, in vari contesti e a vario titolo.

È certamente evocativa e affascinante e, per certi versi, rispecchia di un modo diverso di vedere le cose e di affrontare i problemi, anche se personalmente credo che, in un contesto aziendale, una forse più corretta lettura possa essere “Il vero viaggio di scoperta consiste sia nel cercare nuove terre che nel farlo con nuovi occhi”, a evidenziare che in un mondo globale, veloce, fluido e competitivo, la sopravvivenza è quasi sempre questione di obiettivi (le nuove terre) e di strategia per raggiungerli (i nuovi occhi).

Viviamo in un mondo digitale, dove i dati sono i nostri occhi, occhi molto efficaci, in grado di abbracciare una vista panoramica, ma anche di scendere fino al dettaglio più fine, dandoci così tanti stimoli che non è affatto scontato essere poi in grado di gestirli, correndo il rischio di perderli o, addirittura, di non essere consapevoli di averli ricevuti.

In definitiva, rischiamo di non vedere ciò che guardiamo, non perché non abbiamo abbastanza dati, ma perché ne abbiamo così tanti che diventa assai difficile poterli gestire e non da un punto di vista del segnale - la tecnologia è così matura che oramai ci garantisce che nulla vada perso - ma perché ci risulta difficile avere piena consapevolezza di ciò che i nostri occhi hanno visto, come se il nostro cervello non fosse in grado di tenere il passo, dovendo necessariamente fare una selezione, per il solo motivo che tutto ciò che è stato guardato non è stato ben classificato e messo a disposizione.

Rischiamo di non vedere ciò che guardiamo perché ne siamo travolti, perché il nostro campo visivo semantico è limitato, lento nell’elaborazione, e quindi, per non perdere nulla, dobbiamo essere in grado di dirigere velocemente lo sguardo nella giusta direzione, dove accade ciò a cui siamo interessati, di farlo nel momento esatto in cui accade e, infine, di essere in grado di trasformare l’insieme di stimoli che caratterizzano ciò che guardiamo in una rappresentazione complessa e articolata, che sia semanticamente collocabile in ciò che sappiamo.

Sono proprio queste abilità che consentono di vedere ciò che guardiamo, di passare cioè da un fenomeno fisico, il guardare, a uno semantico, il vedere e se il significato si realizza nell’opportuna combinazione di ciò che abbiamo guardato, allora è fondamentale conoscere ciò che possiamo usare per tale composizione, senza eccezione alcuna: se non siamo in grado di cogliere ogni singolo stimolo, allora a maggior ragione non saremo in grado di usarlo per comporre il significato complessivo di ciò che guardiamo.

In altre parole, gli stimoli, da soli, non sono sufficienti per una corretta comprensione o concettualizzazione di ciò che guardiamo, ma senza di essi ogni tentativo di vedere e comprendere sarà necessariamente monco, come se ci fosse una macchia scura nell’immagine complessiva.

Possiamo allora dire che, benché da soli non siano sufficienti, gli stimoli (i dati, da questo punto in avanti) hanno necessità di essere gestiti al meglio, efficientemente, e spesso devono essere colti nell’esatto momento in cui sono generati, né prima né dopo, perché tutto ciò che accade è sempre qui e adesso e se l’obiettivo è conoscere per agire, allora l’azione dovrà essere pronta affinché possa produrre gli effetti desiderati.

Abbiamo allora bisogno di un nuovo modo di vedere e non, al contrario, di altri dati, che sono già abbastanza. Un modo che garantisca agilità e consapevolezza, che vada ben al di là di risolvere i tecnicismi legati all’accesso ai dati e che conduca, invece, nella direzione di un loro uso efficace, perché il valore che dai dati possiamo estrarre è nell’uso che ne facciamo, esattamente come il valore dei mattoni è nell’edificio che contribuiscono a costruire.

Se assumiamo che il “guardare” equivalga a raccogliere i dati e il “vedere” a farne uso, allora i nostri sforzi devono concentrarsi sul secondo, dato che sul primo è oramai stato detto tutto e, forse, il problema è addirittura quello di limitare il bombardamento di dati, che spesso sono così tanti che anziché donarci informazioni, ne ottundono la possibilità di farlo.

Per vedere al meglio, se da un lato dobbiamo poter cogliere tutti i dati, mediando tra la loro velocità nel presentarsi e la nostra capacità di processarli, dall’altro dobbiamo anche disporre di un sistema di riferimento che ci consenta di classificarli, perché per poter trasformare i dati in unità informative è necessario disporre di una concettualizzazione che consenta di collocare ciascun dato laddove debba essere collocato.

Dobbiamo anche poter condividere ciò che vediamo, perché siamo parte di un sistema, per il quale la condivisione è un asset fondamentale, che ci consente, appunto, di essere sistema e non la mera somma delle sue individualità.

Infine, dato per assunto che siamo riusciti a vedere ciò che abbiamo guardato, dobbiamo avere la possibilità di adattare ciò che abbiamo visto a ciò che a noi serve per soddisfare le nostre esigenze, per poter disporre, in altre parole, di ciò che è funzionale a tali esigenze, combinando ciò che è stato visto secondo la concettualizzazione che abbiamo del contesto di riferimento, in modo che questo sia ben descritto, in accordo al significato che la concettualizzazione esprime. Dobbiamo, in altre parole, poter combinare tra loro i diversi dati, affinché questi producano quelle rappresentazioni che consentano di dare un significato a ciò che abbiamo visto e, di conseguenza, agire secondo quella che, con le parole di John Searle, è la nostra intenzionalità[1], cioè il modo in cui usiamo ciò che conosciamo per raggiungere il fine che ci siamo posti.

Riassumendo, dobbiamo poter intercettare tutti i dati, comunque essi siano fatti e da ovunque essi provengano; dobbiamo poter sintetizzare tali dati e renderli disponibili per combinarli in modo da passare dal guardare al vedere; dobbiamo poter condividere ciò che noi abbiamo visto con gli altri, perché siamo parte di un sistema e perché abbiamo spesso fini comuni e, infine, dobbiamo poter essere certi che non ci siano preclusioni di principio all’accesso a tali dati, perché il nostro obiettivo è la democrazia dei dati, corretto punto di equilibrio tra il detenere per sé le informazioni (Data Dictatorship) e renderli disponibili senza alcuna regola e controllo (Data Anarchy).

Se accettiamo il parallelo tra occhi e dati e tra stimoli e misure, allora ciò che dobbiamo fare e che abbiamo appena descritto ci porta a immaginare un sistema di Data Management che consenta di attuare tutto ciò di cui abbiamo parlato e, da questo punto di vista, fondare un tale sistema su un approccio basato sulla Data Virtualization è un ottimo spunto, considerando che questa ci consente di:

1.     Raggiungere con facilità i dati, ovunque essi siano e qualunque sia il loro formato;

2.     Combinare i dati, così che la loro elementarità possa combinarsi e produrre costrutti informativi sempre più ricchi, fino a generare conoscenza e saggezza[2];

3.     Separare i dati nella loro componente logica e fisica (o intensionale ed estensionale), in modo che significato e significante[3] siano chiaramente distinguibili. In altre parole, deve esserci chiara separazione tra il significato del dato e le sue realizzazioni;

4.     Consultare facilmente i dati, da parte di persone e applicazioni, senza che per la loro lettura si debba necessariamente essere a conoscenza della sintassi che ne regola il formato nativo. In altre parole, per ogni dato, deve esserne possibile la sua rappresentazione in un formato standard, che sia ragionevolmente noto, di facile lettura e, ovviamente, semanticamente equivalente al formato nativo;

Da questo punto di vista, quindi, la Data Virtualization rappresenta un nuovo modo sia di guardare che di vedere, che ci consente di gestire al meglio i dati, ma anche di collocarli in un contesto interpretativo che ne liberi il valore potenziale.


[1]John Searle - “Intentionality: An Essay in the Philosophy of Mind” - 2008

[2] Con tale termine indichiamo la capacità di un’azienda di essere efficace nel contesto nel quale opera. Ciò che normalmente consente di passare dalla conoscenza alla saggezza è il pragmatismo, che può essere qui letto come la capacità che la conoscenza ha di indirizzare il comportamento.

[3] Ferdinand de Saussure - “Cours de linguistique générale” - 1916



Antonello Busetto

Public Affairs Consultant presso SeSa s.p.a.

1 anno

In alcuni casi, per cogliere pienamente le opportunità, è anche necessario mettere gli occhiali 🤓🤓🤓

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