PMI e Innovazione: stato d'allerta per miopia di Stato
Quando il pastore è cieco il gregge si disperde (Isaac Bashevis Singer)
“Tutti sanno quanto è fondamentale questo momento storico per cogliere le opportunità dei cambiamenti (…) tutto il pacchetto Industria 4.0 dei precedenti governi lo abbiamo rimodulato sulle aziende piccole e medie al posto delle grandissime”. Così dichiarava il Ministro dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio in un'intervista all'Agi lo scorso Natale.
Se è vero che lo stesso dicastero guidato da Di Maio ha aperto tavoli di confronto con le PMI circa il tema dell'innovazione (iniziativa lodevole e aperta a tutte le confederazioni rappresentative a livello nazionale), ciò è successo nello stesso periodo in cui rilasciava le dichiarazioni riportate nell'incipit.
Per questo, la scelta dei prossimi piani di sviluppo e delle relative rimodulazioni citate sembra prescindere da un'analisi basata su dati reali legati alle esigenze attuali delle piccole e medie imprese: cosa davvero serve, in che modalità e dove sono le sofferenze nel rapporto PMI-innovazione. Per un'analisi efficace in tal senso, bisogna parlare prima con le aziende, dopo con i tecnici: una volta raccolto il loro contributo, questo va tradotto e canalizzato in dati e solo a quel punto gli specialisti potranno proporre le soluzioni. Altrimenti è un po' come andare dal meccanico e dirgli di procedere alla riparazione della propria automobile, lasciandolo così: “Vedi tu, quando hai finito ti spiego perché l'ho portata a riparare”. Può funzionare certo, ma probabilmente si perde tempo (nella migliore delle ipotesi). E con l'avvento della quarta rivoluzione industriale, ormai sull'uscio di casa con l'imminente arrivo della rete 5G, anche solo perdere tempo è un peccato irreparabile.
Stato d'allerta
Quando si parla di PMI italiane, ci si riferisce ad oltre 4 milioni di realtà aziendali che occupano quasi 16 milioni di persone: in sintesi, il 70% della forza lavoro del nostro Paese. Insomma, la principale architrave della nostra economia in termini di lavoratori occupati.
Purtroppo, come correttamente evidenziato da Paolo Marizza in un articolo recente “negli ultimi 15 anni la crescita della produttività è rallentata, gli investimenti delle imprese sono diminuiti e la crescita dei salari è stata debole. Se la rivoluzione dei robot fosse davvero in corso, vedremmo un aumento delle spese in conto capitale e una crescita della produttività (…) invece abbiamo la realtà di una crescita stentorea e dei livelli retributivi stagnanti”.
Così, continua l'analisi di Marizza, “i bassi costi di manodopera scoraggiano gli investimenti in tecnologie che riducono la manodopera (…) l'automazione tende ad aumentare povertà e disuguaglianze (…) queste dinamiche alimentano un circolo vizioso di bassa produttività, bassa innovazione, carente capitale umano e crescente disuguaglianza”. Un quadro che per fattori storici stranoti colpisce soprattutto le aziende del Mezzogiorno. E che ho sintetizzato nel grafico seguente, considerando i dati del Laboratorio Manifattura Digitale dell'Università di Padova:
Liberi tutti, in ordine sparso
Sarebbe ingiusto imputare al governo attuale un annoso problema sistemico: le imprese italiane si muovono all'estero da sole, senza un concreto supporto istituzionale. D'altra parte, questo è un problema reale, forse il principale freno della nostra economia vista la portata delle nostre eccellenze (specialmente in mercati e servizi di nicchia) e l'ormai celebre qualificazione del brand “Made in Italy”, terzo al mondo dopo Coca-Cola e Visa. Inutile ribadire come invece Germania (altra nazione ricca di PMI) e Francia, solo per fare qualche esempio, si muovano in tutt'altra direzione strategica: da sempre.
Come evidenziato nel grafico precedente, il problema riguarda soprattutto le piccole e medie aziende del Sud, anche in questo caso per profonde motivazioni storiche e per il ricatto delle mafie sul territorio: non si capisce perché, quando si parla di economia nel nostro Paese, la presenza delle organizzazioni criminali diventi un argomento tra tanti, quando è chiaro da tempo che questo sia il principale argine di sviluppo del Meridione.
Il risultato combinato di questi fattori, nella migliore delle ipotesi, è che le grandi realtà industriali del nostro Paese (ad esempio, Luxottica, Barilla o Finmeccanica) riescono ad ottenere risultati sorprendenti nei mercati stranieri, mentre quando si scende in numero di dipendenti e si parla di PMI, solo le aziende più “smart” e più aperte al mercato globale, riescono a farsi largo all'estero. Per tutte le altre, il messaggio dello Stato sembra essere lo stesso da sempre: arrangiatevi.
Infatti, la globalizzazione e soprattutto la perdurante crisi economica impongono a tutte le aziende di rivolgersi all'estero. Grandi e piccole, propense o meno. E in questo processo lo Stato deve assumere un ruolo dirigista. Lo storico indiano Pankaj Mishra (editorialista del NYT, non certo tacciabile di simpatie comuniste), tra tanti altri studiosi, mette in luce chiaramente nell'articolo “The rise of China and the fall of the free trade myth” come le chimere del libero mercato (concorrenza perfetta, deregulation statale, etc.) siano appunto sogni slegati dalla realtà in quella che è stata la grande crescita economica degli stessi Stati Uniti e dell'Europa nell'Ottocento, del Giappone nel Novecento, della Cina nel nuovo millennio. In tutti questi casi, lo Stato ha supportato e diretto l'economia nazionale verso obiettivi specifici, ottenendo risultati strabilianti. Con buona pace del sogno di Adam Smith di una “mano libera” del mercato capace di autoregolamentarsi: il “free market” è e resterà un sogno. Trasformato in un incubo spaventoso nelle traduzioni teoriche di Milton Friedman diventate realtà di sangue, come brillantemente narrato da Naomi Klein in “Shock Economy”.
E' chiaro che lo Stato sia la proposta di una comunità al mondo: è il senso stesso di questa entità politica, oggi sempre più in crisi. Per questo, il nostro Stato – e nello specifico l'attuale governo, che sembra sposare posizioni ideologiche di questo tipo, almeno nelle affermazioni di principio – dovrebbe prendersi in carico la responsabilità di organizzare l'offerta coordinata delle PMI autoctone verso il mondo.
Guardare il futuro con gli occhi chiusi
Le fake-news hanno schiuso l'era della post-verità che poggia su un semplice principio: la libertà dai vincoli reali imposti dai dati statistici. Come ha sintetizzato il “The Guardian”: “La libertà dai dati statistici non è la democrazia, ma la libertà per demagoghi e direttori di giornali scandalistici di spacciare la loro verità su cosa sta succedendo nella società”. Ai giornali scandalistici, in tale considerazione, si possono chiaramente affiancare siti non giornalistici e pagine social.
La statistica moderna, nata nella seconda metà del Seicento in Regno Unito e nell'Europa continentale, intendeva studiare una popolazione nella sua interezza, mentre prima ci si limitava a individuare strategicamente le fonti del potere e della ricchezza. Ma è solo nel Settecento, con l'influenza dell'Illuminismo e della Rivoluzione francese, che i politici si convinsero che sistemi di misurazione nazionale potevano produrre una politica più razionale che partisse dal miglioramento tangibile di condizioni sociali ed economiche. E fu proprio lo Stato giacobino a imporre per primo un sistema di misure nazionali per misurare e raccogliere i dati (tanto che il primo Istituto ufficiale di Statistica al mondo aprì a Parigi nel 1800).
Tutto ciò per dire, nelle parole del sociologo William Davies, che “è grazie alla statistica, e non alle istituzioni democratiche in quanto tali, che sappiamo come pensa l'opinione pubblica su una serie di questioni specifiche”. E non è un caso che nell'era della post-verità, la crisi della statistica nazionale oggi coincida con la crisi dello stato-nazione. Questo è un aspetto del problema di comprensione dell'avvento della quarta rivoluzione industriale: l'assenza di dati e la mancanza di credibilità imputata a chi li fornisce. Oggi chiunque ha una sua verità e i dati non sono più considerati arbitri di ciò che è vero o falso.
Altro problema è il tecnicismo di chi si occupa di analizzare la complessità dei dati riguardanti le nuove tecnologie dell'informazione (genericamente detta “automazione”). E' necessaria una lente di comprensione che traduca concetti complessi in espressioni comprensibili, che sintetizzi il linguaggio del ricercatore nel linguaggio di chi fa impresa. A confermarlo è proprio il nostro Istituto di Statistica nel 2018, secondo cui 1 impresa su 4 di minore dimensione contro 1 su 10 tra quelle grandi non sa rispondere al quesito sulla scelta dei fattori di digitalizzazione come drivers della crescita dell'impresa. Non sa rispondere perché non sa quali siano e/o come funzionino.
Per usare una metafora, l'avvento di Windows 95 ha rivoluzionato l'informatica domestica, rendendo stringhe di comando di dominio esclusivo di programmatori e appassionati uno strumento utilizzabile da chiunque. Oggi abbiamo bisogno di un traduttore di questo tipo (o forse di tanti agenti traduttori) per avvicinare chi sa di automazione a chi gli strumenti applicativi di questa automazione porterà in azienda. Di questa rivoluzione, a mio parere, lo Stato deve essere il principale interprete e motore.
Per favore, fate presto!
La cecità è una forma di solitudine (Jorge Luis Borges )
Il 10 novembre del 2011 Il Sole 24 Ore titolò con un roboante e inedito (per i toni del giornale di Confindustria) “FATE PRESTO” l'apertura di prima pagina. Il riferimento era al balzo del differenziale dello spread Btp-Bund oltre i 550 punti e al conseguente rialzo al 7,25% del tasso dei titoli pubblici biennali. Al tempo, il problema era soprattutto di natura nazionale: oggi la sfida che si pone davanti all'Italia è la stessa che interessa tutti i paesi del mondo.
L'avvento della quarta rivoluzione industriale è ormai sotto gli occhi di tutti. E la pervasività dei processi di automazione in tutti i segmenti del mercato del lavoro – soprattutto sostituendo le mansioni che hanno “competenze medie” e prossimamente quelle “basse” (Figura successiva, fonte: Ocse) – si combina ad un rapido processo di accentramento dei mezzi di produzione tecnologica nelle mani di poche grandi multinazionali.
Come correttamente evidenziato da Gabriele Guzzi in un articolo recente, “il progresso tecnico rientra quindi a pieno nelle competenze dello Stato, che si dovrebbe impegnare con maggiore lungimiranza a dirigere l'automazione con l'utilizzo di due parametri principali: il contenuto di tale progresso tecnico e la distribuzione dei suoi benefici”. Questo è oggi ancora più urgente perché la nuova rivoluzione industriale rischia di minare le fondamenta della nostra società. Nelle parole del sociologo Colin Crouch, citato nello stesso articolo da Guzzi, “la potenzialità emancipativa della tecnica è stata quindi indebolita dallo squilibrio nella divisione dei suoi benefici, che oggi rischia inoltre di destabilizzare il senso stesso delle autorità democratiche, che si trovano alquanto impotenti a regolare o semplicemente a contrattare con grandi multinazionali”.
Per questi motivi, è auspicabile incrementare la formazione sugli strumenti della quarta rivoluzione industriale, iniziando non dall'uso materiale dei cobot ma dagli elementi cognitivi di base, ad esempio, del machine learning e dallo stesso glossario delle tecnologie dell'informazione. Un processo che non può essere delegato solo a chi si occupa di ricerca, né solo a consulenti dei processi di “change management” aziendali, ma a divulgatori specializzati che usino strumenti statistici affidabili: per parlare la lingua delle piccole e medie aziende, partendo dalle esigenze reali delle PMI.
Tanto per rimanere in tema di affidabilità (ed esigenza) della statistica nell'identificare i problemi reali, l'ultimo dato che vorrei citare è dell'Istat (2018): “Lo sviluppo delle competenze tecnologiche delle risorse umane già occupate in azienda è considerato dal 22,4% delle imprese con almeno 10 addetti uno dei tre principali fattori competitivi del biennio 2018-2019, insieme alle agevolazioni pubbliche (48,5%) e all’accesso ad infrastrutture e connessioni in banda ultralarga (30,8%)”. E' un processo impegnativo, ben più lungo di un quinquennato di governo. Ma è un cambiamento indispensabile per salvare e rilanciare le nostre PMI e per non rimanere tra le poche potenze economiche al palo nelle sfide imposte dal futuro imminente dell'innovazione tecnologica. E che per tutte queste ragioni deve cominciare adesso.