Posto fisso, ti lascio. Anche se fuori piove.

Posto fisso, ti lascio. Anche se fuori piove.

Mio padre mi diceva sempre “non lasciare mai un lavoro se non ne hai trovato prima un altro”; era del ’26 mio padre. Figuriamoci lasciare il posto fisso. Da piccola sognavo di fare il meccanico perché le mani sporche e il carrello che vedevo sotto le auto delle officine mi sembravano più vere della Barbie. Le bambole, comunque, non le ho mai snobbate. Io mi sono licenziata il 1 dicembre dall’azienda pubblica in cui lavoravo da dieci anni come Responsabile della comunicazione e Segretaria di direzione. Quante sfumature professionali si imparano nel fare la segretaria di un Presidente e di un Amministratore delegato, quanta fiducia si prende e che sguardo privilegiato sulla cultura di impresa nel bene e nel male di ciò che vedi da vicino. Mio padre oggi non mi capirebbe ma rispetterebbe la scelta - ne sono certa - e mi abbraccerebbe come a dire mi fido di te. E farebbe bene, perché io di me mi fido.

Licenziarsi è un verbo grammaticalmente riflessivo e umanamente edificante perché dice chiaro e tondo che hai fatto una scelta precisa nel mettere in fila gambe, esperienza, testa e cuore per andare su strade più tue. Il dopo non lo conosci ancora ed è il lato più intrigante di ogni forma di bellezza. Non maturiamo perché qualcuno ci spinge da dietro ma perché qualcosa ci attrae dal davanti. Scegliere vale molto più che cambiare.

Dai miei 33 anni ai 43, anche grazie a quegli uffici sono diventata la donna che sono. Se c’è una certezza che mi si è fatta pelle, è che la vita porta con sé cicli che vanno inesorabilmente chiusi al tempo giusto, quando lo scambio finisce: a quel punto, o si riparte in due o è meglio lasciare. Vale per le professioni, per gli amori, per gli amici. 

In azienda avevo finito le carte da giocare e ormai le avevo usate tutte: se non chiudi il cerchio quando hai ancora i lembi intatti in mano, rischi che il logorio rosichi pure lo spago e i due estremi non arrivino più a toccarsi.

Quando un lavoro ti dà solo soldi, ti sta rubando qualcosa. Ho preso i tempi giusti per me ma ho anche guardato fuori dalla finestra, là nel mercato del lavoro, dove ancora sembra piovere a dirotto. 

Posto fisso non ti amo più ma sì che all'inizio ti ho amato, quando il bisogno di stabilità economica nutre i trentenni quanto i baci i ventenni. Sì, all’inizio ti ho amato pur non avendoti mai fatto la corte perché il mio tipo non lo sei mai stato; nemmeno te l’ho mai nascosto. Su una cosa, inesorabilmente, non ci siamo mai trovati: il nostro senso del tempo rispetto alle azioni. Ci siamo continuamente persi nel presente e il presente a un certo punto chiede il conto. Ci siamo scoperti diversi, nessuno di noi migliore o peggiore dell’altro; è per questo che la settimana scorsa sono andata in azienda per salutare e ringraziare i colleghi portando vino buono, la mortadella che amo e il pane caldo del fornaio di fiducia. È così che dovremmo sempre lasciare andar la vita, col sorriso di chi non rinnega né rimpiange e qualche lacrima salata e schietta, presa e data, che non si nega a nessuno. 

È uno status mentale il posto fisso, un modello bastardo, italiano dalla testa ai piedi, intriso di inerzia e della logica "per sempre". Socialmente ti fanno sentire talmente fortunata ad avere quel posto che guai a pensare di lasciarlo; a volte mi sono persino vergognata con me stessa. Tutto è relativo, niente assoluto. Ti spacca in due il posto fisso, quando ci siedi sopra. Ti senti in colpa sia all’idea di mollarlo che di restargli attaccata una vita: la mia fortuna è che coi sensi di colpa ho smesso anni fa, che anche quella è una brutta droga. Uno stipendio si fa ricatto solo quando gli diventi complice.

Prima di andarmene ho guardato bene dentro, e mi sono presa un tempo di pausa inaspettato. Da dentro ho capito che, senza rendermene conto, tre anni fa avevo già fatto la muta e cinque anni fa avevo messo le basi. Nel 2012 l’incontro felice col network di FiordiRisorse: il sole quando tutto era nebbia, il senso vero di community quando nel mondo del lavoro ognuno tirava acqua al suo mulino; tre anni dopo, nel 2015, abbiamo generato Senza Filtro con la stessa linea etica, la stessa idea di rete, il desiderio di colmare un buco nel mondo editoriale: un quindicinale che per scelta non rincorre il tempo in fuga e che parla di lavoro a chi ha voglia di annusarne la sostanza, un quindicinale che lavora da una redazione centrale e parla ad una redazione diffusa più esterna. Da Direttore responsabile l’ho visto nascere e d’ora in poi lo voglio veder crescere; intanto, a marzo 2018, Bologna ospiterà il nostro festival sulla cultura del lavoro, il primo in Italia. Lo abbiamo chiamato Nobìlita


Tra il 2014 e il 2015 mi erano scattate le molle che qualcuno chiama desideri, chi passioni, chi vie di fuga: dopo 15 anni di giornalismo targato food&wine (in inglese rende meglio), mi ero iscritta ad un corso Fisar per diventare sommelier. Volevo rimettermi a studiare e aggiungere teoria alla pratica, insomma un percorso inverso. Lavoravo in azienda tutto il giorno, frequentavo di sera, studiavo di notte. Consiglio a chiunque di iscriversi dopo i quarant'anni a un corso appassionante che richieda non solo studio ma anche qualche esame finale perché senza prove misurate dagli altri rischiamo di crederci i migliori. Lo rifarei a occhi chiusi. Sarà per questo che da un paio di mesi porto in giro per l’Italia “Il Bicchiere mezzo pieno”, un format didattico e informale sulla conoscenza del vino che spazza via rigore e puzza sotto il naso da un settore ancora troppo selettivo. Ne sto preparando anche una versione più manageriale per i pranzi di lavoro.

Dal 2003 il giornalismo non l’ho mai lasciato mentre la laurea in legge è ancora arrotolata nel cilindro. Che ci fai coi titoli appesi se tanto non ti somigliano?

Ho lasciato il posto fisso per mettere alla prova del mercato la mia coscienza di scrivere e la mia esperienza nel comunicare; però devo essere onesta fino in fondo: senza la rete di contatti intrecciati con cura in quindici anni, un mestiere dietro l’altro, ora non mi sentirei così a posto con me stessa e tanto pronta nell'andare altrove.

Ho chiuso la porta alle spalle, senza sbatterla, anche se là fuori piove ancora a dirotto.

Sì, ho lasciato cadere l’ombrello.

Sotto l’ombrello del posto fisso non piove mai ma io ho anche voglia di bagnarmi.

Fabio Pallesca

Ha frequentato Università

6 anni

Alle volte per non diventare "volgari come gli altri" occorre cambiare. Brava Stefania.

Antonietta Bua

funzionaria amministrativa presso Regione Autonoma della Sardegna

7 anni

L'articolo è interessante, il punto di vista però non è chiaro. Non conoscendo la persona ed il contesto non è possibile intuire quale siano le cause delle insoddisfazioni che ha portato alla necessità del cambiamento. Una riflessione su questi aspetti può essere utile. Elaborare, ciò che non si è riusciti ad esprimere o razionalizzare stando dentro una realtà, può essere utile per chi rimane ma può servire anche a chi si trova in situazioni analoghe. Nessun contesto è statico ed ogni realtà necessita prima o poi di cambiamento.

Andrea Camaiora

Mi occupo di crisi e reputazione per manager, professionisti, imprenditori e aziende | Docente universitario a.c. | Giornalista | Imprenditore | Scopri il docu-film del gruppo The Skill "A un passo dalla luna"👇🏻

7 anni
Anna d'Alessandro

Innovative Digital Strategy & Business Development Executive | Driving Growth through Strategic Leadership & Advanced Marketing Solutions

7 anni

Cara Stefania, sono arrivata a questo articolo solo oggi e per vie traverse, nel senso che ho letto prima il tuo altro articolo "Correggere è un verbo plurale" che mi è piaciuto tanto e mi sono incuriosita. Ti faccio davvero i miei complimenti per quello che hai scritto e soprattutto per come lo hai scritto: in modo semplice e gentile, ma con parole sincere e intense. Spero di leggerti ancora, anche perché mi sento molto vicina ai tuoi pensieri e al tuo vissuto. Grazie.

Stefania Zolotti

Giornalista e Direttrice di SenzaFiltro - il giornale della cultura del lavoro

7 anni

Dopo questo mio articolo continuo a ricevere da settimane pensieri e riflessioni talmente personali e intime sui vostri stati d'animo legati al lavoro che tutto ciò mi conferma quanto lavorare ci serva soprattutto per noi stessi e dopo, solo dopo, per ciò che viene decodificato dentro la società o dentro la famiglia o dentro le relazioni in base a canoni, codici, ruoli, stipendi. Grazie ancora a tutti voi.

Per visualizzare o aggiungere un commento, accedi

Altri articoli di Stefania Zolotti

  • A noi donne ci rubano in casa ogni giorno

    A noi donne ci rubano in casa ogni giorno

    Premetto che è un articolo lungo e forte, parla di violenza strisciante, parla anche di brutte esperienze personali, si…

    10 commenti
  • La dignità del finale

    La dignità del finale

    Non leggo La Gazzetta dello Sport ma vado matta per SportWeek; dentro ci trovo punte di giornalismo affilate come…

    2 commenti
  • Correggere è un verbo plurale

    Correggere è un verbo plurale

    Il caso non esiste, ne sono certa. Quando alcuni mesi fa Sebastiano Zanolli mi propose di curargli l'editing di…

    5 commenti

Altre pagine consultate