Private equity, è l’ora del secondario: il mercato è quintuplicato
Da un lato la difficoltà per i fondi di private equity di cedere gli asset in portafoglio, complice tra le altre cose l’instabilità di questi ultimi anni, dall’altro la necessità di rendere liquido un mercato che non lo è per definizione. Sospinto da queste due forze, il mercato secondario – inteso come l’acquisto di quote possedute dagli investitori (Limited partners, LP) – sta prendendo sempre più piede e, dalla crisi finanziaria globale del 2008, è infatti cresciuto di cinque volte, superando costantemente i 100 miliardi di dollari di transazioni all’anno negli ultimi tre anni.
Solo nel 2023, rileva Jefferies , i volumi dei deal dei secondari globali sono cresciuti del 4% a 112 miliardi di dollari, un dato che rende quello scorso il secondo anno più attivo di sempre. A livello regionale, un terzo delle operazioni di questo tipo è stato realizzato in Europa occidentale mentre il 57% delle operazioni, spiegano da Arcano Partners , negli Usa. E a vendere, rileva la società spagnola, sono soprattutto fondi pensione (33%) e istituzioni finanziarie (21%)
“Date le restrizioni alle vie di uscita tradizionali che si prevede persisteranno nel prossimo futuro, le transazioni secondarie sono emerse come un’interessante soluzione alternativa per fornire liquidità agli investitori del fondo”, spiega Gonzalo Eguiagaray , managing director e responsabile del private equity di Arcano Partners, asset manager e investitore anche in secondario, che in Italia ha già realizzato un paio di operazioni di questo tipo con Nb Renaissance e Investindustrial.
“Inoltre, i General partner (i gestori del fondo, ndr) – prosegue il manager – stanno ora utilizzando il mercato secondario per ricapitalizzare gli investimenti dei fondi precedenti in nuovi veicoli. Si tratta delle transazioni cosiddette GP-led, – aggiunge l’esperto di Arcano – un segmento che oggi rappresenta il 50% del volume del secondario globale e circa il 10% di tutte le vendite di Private Equity nel 2023”.
Tanto potenziale
Al netto di questa crescita, il potenziale è ancora alto. Intanto, evidenziano da Arcano, il volume annuale delle transazioni secondarie rappresenta l’1% circa degli asset di private equity in gestione, il che implica che ci sono ancora spazi di mercato. Inoltre va anche considerato che i fondi di private equity hanno oggi in portafoglio oltre 3mila miliardi di dollari in più di 26mila società e un quarto di queste – il 25% – è nei portafogli dei fondi da oltre sei anni, quindi maturi per essere venduti.
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Senza considerare poi che per la prima volta dalla crisi finanziaria globale del 2008, gli investitori a lungo termine nel private equity stanno sperimentando significativi flussi di cassa negativi (il saldo fra richiami di capitale e distribuzioni) e molti di loro hanno bisogno di vendere parte del loro portafoglio per avere liquidità e ribilanciare l’esposizione.
Secondario: caratteristiche e vantaggi
Gli investimenti in secondario, spiega Eguiagaray, durano solitamente 6-8 anni rispetto ai 10 tradizionali, entrando in un fondo già impiegato, e possono richiedere sino a nove mesi per essere realizzati. I vantaggi però sono molteplici. Chi sceglie di investire in questa asset class ha un accesso immediato ad un portafoglio di fondi di private equity, entrando in fondi più maturi che sono già investiti mentre si riduce il rischio di “blind pool”, con l’aumentata visibilità data da un portafoglio già costruito.
Inoltre, i prezzi di ingresso sono solitamente a sconto sul NAV – del 9% di media nel 2023 – e un periodo di detenzione più breve con meno capitale a rischio e IRR (internal rate of return) tipicamente più alti dovuti a exit anticipati.
L’analisi della volatilità, dei rendimenti e del loss ratio a livello di settore conferma che i fondi secondari di private equity presentano uno dei profili di rendimento corretti per il rischio più interessanti, soprattutto se confrontati con il private equity diretto.
Ad esempio, negli ultimi trent’anni solo l’1% dei fondi secondari maturi ha avuto rendimenti netti inferiori a 1 volta, mentre questo numero sale rispettivamente a circa il 10%, il 15% e il 25% nel caso dei fondi di buyout, growth e venture capital, secondo i dati pubblicati dal provider di data research Preqin.