Prospettive - Cosa ci aspetta
“Non si addice il lamento nella casa dei poeti” (Saffo di Lesbo)
Non è mia intenzione entrare nel merito della domanda se l’arte è morta ed eventualmente in che senso. Grandi filosofi hanno affrontato il tema e fornito risposte importanti che ormai fanno parte della storia del pensiero. Non c’è dubbio che negli ultimi due secoli il tema venga riproposto quasi regolarmente con un’accentuazione nei tempi a noi più vicini.
Io non sono un filosofo ed evito prese di posizioni assolute e universali, anche perché l’incontro di cui parlo spesso tra Scienze Fisiche e Scienze Umane, di cui il pensiero complesso si fa portavoce, mi spinge a collocare il fenomeno artistico in una dinamica evolutiva e in termini di autorganizzazione.
Ho cominciato a pormi delle domande non tanto a partire dalla produzione pittorica del ‘900, come è successo per molti, ma quando ho com-preso che la poesia moderna, quella iniziata da Baudelaire nel 1857, era radicalmente diversa dalla poesia che si era avuto in precedenza.
Al di là dell’interpretazione che della nuova poesia si poteva dare mi convinsi che si trattava di una poesia di creazione che si sentiva certamente più libera, ma che era molto di più, perché usava la parola come struttura fondamentale della vita, non solo letteraria: era importante l’assenza di rima, la disomogeneità dei versi e tanti altri aspetti innovativi, ma questi erano solo un aspetto secondario. La poesia di creazione mi fece comprendere la nascita della pittura moderna, della filosofia che fu chiamata “non razionalistica” e per ultimo la Scienza della complessità e tutte le regioni che le ruotavano intorno. Si disegnò così un quadro vasto e le cui componenti erano fortemente interconnesse e non statiche.
Come ho scritto negli articoli relativi a Montale e Paz è grazie a questi due poeti che le mie acquisizioni di conoscenza e vita trovarono un punto di riferimento importante e furono necessari entrambi per porre le basi di quella che penso sia la prospettiva della letteratura nell’epoca che stiamo vivendo.
Riprendiamo e sviluppiamo gli elementi già proposti.
Prima di procedere con l’approfondimento delle prospettive, che soprattutto Paz ci invita a vedere, vorrei fare una panoramica attuale di quelle che sono le convinzioni più comuni sul destino della poesia. Molti sono gli studiosi e gli autori che si interrogano sulla situazione attuale della poesia, rendendosi conto che, se da un lato essa sia indispensabile alla vita dell’essere umano, dall’altro sanno bene che la poesia non svolge più quel ruolo decisivo che ha avuto in passato, un passato anche recente. Mi baserò sullo sguardo nella poesia di autori americani, australiani e italiani: naturalmente, anche se è solo il punto di vista di quattro persone, esso risulta, nella sua varietà, abbastanza completo di ciò che nel mondo della poesia si pensa sulle prospettive di questa.
Bronwyn Lea è una poetessa australiana che ha scritto nel merito un interessante saggio, intitolato Australian Poetry Now (Australian Poetry Now | Bronwyn Lea - Academia.edu).
Numerosi sono gli autori citati e tutto comincia con la risposta di uno dei più grandi poeti australiani, A.D. Hope, alla domanda su cosa possano fare i poeti per l’Australia: e cioè che essi sappiano giustificarne l’esistenza.
L’autrice dichiara che “the most convincing justification for the existence of Australia might come from its indigenous poets”, infatti ella cita la ricca produzione aborigena sottolineando il recupero da essa fatto della tradizione orale che risale a tempi lontani. I temi sono cerimonie, riti, ma anche soggetti di interesse quotidiano come l’amore, la caccia, la flora, la fauna, la storia locale e altro. La poesia aborigena scritta in inglese ha avuto di recente uno sviluppo, affrontando temi come la politica della razza, l’ecologia e i diritti aborigeni sulla terra. In tal senso viene sottolineato il ruolo di Fogarty che “ha dato vita a forme del linguaggio innovative e dirompenti e ha aperto la strada a un nuovo spazio di scrittura post-surrealista aborigena (Am I)”.
Un altro poeta, Samuel Wagan Watson, è considerato il più importante della giovane generazione aborigena. Egli presenta (Love Poems and Death Threats), i particolari della sua vita urbana contemporanea: il sogno e i maltrattamenti degli aborigeni, ma anche la guerra in Afghanistan, Hollywood, i manga comics, i poeti Beat, l’amore, il divorzio.
Una tendenza recente è quella del romanzo in versi, un modo per allontanarsi dalla poesia lirica (character beyond the persona of the poet) e cercando di sintetizzare i diversi mezzi espressivi. L’orrore del genocidio, la vita nei sobborghi, la storia del popolo aborigeno, thriller lesbici e non, vita giovanile tra pub musica tatuaggi: insomma i più svariati temi vengono affrontati.
Un altro elemento che l’autrice mette in evidenza riguarda la scoperta di molti poeti del legame con il continente asiatico che spesso ne rappresenta le radici, tenuto conto dei cambiamenti avvenuti nella stratificazione della popolazione negli ultimi decenni: i temi coinvolgono le origini, l’identità, la diaspora, i miti.
Nel quadro generale non può mancare la voce di una donna, Misbah Khokar, che esalta la libertà della donna a tutti i livelli e, coerentemente con l’ultimo femminismo, si fa portavoce di istanze radicali, per cui la soluzione alla guerra è fare a meno delle frontiere.
La conclusione dell’autrice è che nel contesto contemporaneo non esista una poesia australiana dagli elementi esclusivi e definitivi e che “Il numero di vie per l’immaginazione è infinito. Piuttosto andrebbe messo in evidenza quando le istanze sorgono e raccoglierle provvisoriamente come foglie che sbattono contro un muro”.
Jay Parini, poeta e professore statunitense, è autore di un lungo saggio dal titolo “Why poetry matters”, “Perché la poesia è importante”. Il suo studio si muove a 360° e, pur centrato sulla poesia in lingua inglese (i romantici e poi in particolare Emerson, Frost e Eliot), non si sottrae a un’analisi generale e globale sul senso e l’importanza della poesia: il primo capitolo è “La difesa della poesia” che evoca Shelley (1821), mentre nell’ultimo “Conclusione” non rinuncia a fornire il quadro di riferimento attuale.
I due capitoli sono collegati non solo dalla ricerca del senso lungo il tempo fatta nei capitoli intermedi, ma dall’esigenza di rispondere a una domanda non astratta ma dagli evidenti riferimenti spazio-temporali propri della contemporaneità. Il punto di vista personale può forse non soddisfare un europeo, per l’assenza di autori come Petrarca, Ariosto, Baudelaire, Montale, tanto per citarne alcuni, ma non ritengo la mancanza significativa, perché un discorso sulla poesia oggi deve partire da alcuni concetti e non ridursi a una storia cosmogonica ed enciclopedica.
Nella “Prefazione“ Parini riconosce che la poesia non importa alla maggior parte delle persone e riconosce l’origine del problema in diversi fattori di carattere sociale e storico: la mancanza di tempo per la concentrazione, la difficoltà tradizionale della poesia di incontrare la natura a causa del degrado ambientale (riscaldamento globale, inquinamento industriale ecc.), l’incapacità di cogliere il significato spirituale della poesia, “una continuazione delle Sacre Scritture”. In altri capitoli fa notare che la mancanza di interesse per la poesia è legata anche alla “cultura di massa che minaccia di schiacciare la voce personale del poeta” (pag. 44).
Nella “Conclusione” egli rivendica il carattere spirituale della poesia chiarendone i diversi significati, come “interrogazione dello spirito nella natura” (pag.179), come ”sostanza delle nostre vite”, come “qualcosa di più di una semplice articolazione dell’esperienza” e che “Rende il mondo invisibile visibile…valorizza la nostra capacità di fare confronti e stabilire distinzioni. Rianima la natura per noi, connettendo spirito e materia” (pag. 181). Parini insiste proprio sul fatto che la poesia consente l’esistenza di un mondo spirituale, portandoci più vicino a Dio e alla natura e il linguaggio poetico fa tutto ciò in modo più intenso. “In the end, it brings us closer to God, however we define that term”. Dio, l’Assoluto, l’Infinito.
Per quanto riguarda l’Italia faccio riferimento a due interventi presenti nella Newsletter delle Edizioni Luoghi Interiori del marzo 2020 in occasione della Giornata della Poesia.
Mina D’Agostino, giornalista e poetessa, attribuisce la crisi della poesia soprattutto “all’appiattimento generale della cultura” …” insomma l’individuo non sceglie più sulla base di criteri propri, segue l’onda. La poesia rifiuta la delega e impone al lettore di pensare, quanto meno, di chiarirsi le proprie emozioni. Non trovando risposta, si è fatta quindi più ostica, più chiusa, più d’élite. E rischia di morire.“
Se questa è la premessa allora la risposta viene da sé: “La poesia chiede, però, al poeta che la compone anche orizzonti diversi che non siano quelli del proprio io o del proprio privato esistenziale. Sono in atto nella società contemporanea, nel nostro pianeta, nel nostro universo, nel nostro sistema di vita cambiamenti che sconvolgono le certezze dell’individuo, la società stessa, la nostra cultura occidentale. Sono problemi di grande importanza che richiedono oggi al genere umano di segnare una strada, di scegliere dove voler andare, di creare per sé e per i posteri un nuovo sistema di valori.”
L’altro intervento è di Giovanni Zavarella, poeta e scrittore e tant’altro. Da un lato egli rivendica “il diritto degli uomini di trasfigurare nelle parole ciò che entro e fuori urge” e su questo richiama il senso di questa trasfigurazione: “Non solo per comunicare, ma anche per avviare una terapia dell'anima per chi avverte l'urgenza di sfuggire alla prepotenza del pragmatismo e al radente utilitarismo”. L’amore che tutto muove diventa in questa prospettiva un nodo fondamentale attraverso il quale si esprime l’urgenza dell’essere umano.
Vediamo ora di comprendere ciò che unisce un po' queste pur diverse impostazioni.
Trovo il saggio di Parini l’intervento più ampio, ma tutti i punti di vista riportati hanno delle caratteristiche comuni.
Tutti partono dalla specificità della poesia come di un’attività umana essenziale e la cui crisi trova le sue radici nell’evoluzione della società, che viene semplificata in una società materialistica, uniformante, una società che annega l’individuo nella massa, con tutte le caratteristiche negative che sono diventate ormai un filo conduttore ideologico, compresi i problemi arrecati alla natura dall’azione umana. Su questa base si rivendica il diritto della poesia ad avere voce, una voce che è ritenuta essenziale perché capace di illuminare la vita degli esseri umani, giungendo in alcune interpretazioni a servire da guida e uno strumento capace di arricchire l’esistenza umana portandola, in un confronto con la Storia e la Natura, verso qualcosa che non è materiale e che apre le porte dell’infinito, un infinito che può anche coincidere con Dio.
Lo sguardo aperto dai quattro studiosi e poeti fornisce un quadro interessante, abbastanza ampio, se non proprio completo, degli orientamenti attuali, contemporanei, dell’attività poetica.
Nonostante le differenze (IO, drammi storici, tragedie sociali, difficoltà del vivere, comunità, comunicazione, amore e altro) gli interventi mostrano che la poesia è viva e rappresenta un punto di riferimento e un impegno per molte persone. In contrasto a ciò però non si riconoscono né orizzonti né prospettive, infatti mancano vere e proprie dichiarazioni di poetica.
Cosa si aspetta il poeta, il critico, lo studioso, l’amante della poesia?
Questo non emerge perché il termine poeta e il termine poesia sono attribuiti a chi si riconosce come poeta, in modo praticamente autoreferenziale. Fotografare la realtà di chi scrive poesie accettando tutte le manifestazioni che rientrano in quell’accezione è interessante, ma non permette di guardare verso l’orizzonte e fornire un’indicazione sia di dove vogliamo arrivare sia del percorso che dobbiamo intraprendere.
Solo Jay Parini ci dice qualcosa di più, perché egli fa i conti con una realtà poetica importante che ruota intorno ad alcuni poeti di lingua inglese e infatti la conclusione del suo saggio è significativa: la poesia apre le porte dell’Infinito (divino o no).
Il limite degli altri autori sta in un discorso privo di riferimenti alla tradizione poetica, di fatto riconosciuta in un ensemble unitario e indistinto. La poesia è così da sempre.
Il limite di Parini è invece nel continuare a vedere l’epoca della poesia attuale non distinta da quella che comunemente va sotto il nome di “poesia moderna”. I suoi riferimenti, Forst Emerson Eliot, mostrano che la poesia di cui parla è la poesia moderna di cui valorizza la continuità nella poesia contemporanea.
Si ripropone un tema che negli ultimi decenni ha coinvolto anche altri importanti aspetti della vita: la Rivoluzione Informatica è in continuità con la Seconda Rivoluzione Industriale o è altra cosa? La Storia come la conosciamo è sempre la stessa o il riconoscimento della libertà da parte di tutti i soggetti è qualcosa di fondamentalmente nuovo (ex Kojève)? L’economia di mercato globalizzata è qualcosa di diverso o è solo una semplice fase dell’evoluzione senza rotture?
E così la poesia con cui abbiamo a che fare oggi e in prospettiva è riconducibile alla “poesia moderna” o sollecita altre caratteristiche?
Qui di seguito le mie riflessioni, che rappresentano il naturale sviluppo delle 20 lezioni che hanno preceduto questo articolo.
Tutte le persone interessate alla poesia, e in generale alla letteratura, sanno che da qualche decennio essa si trova immersa in una situazione di crisi, nel senso che sono cambiate molte cose rispetto al secolo precedente. Questo cambiamento ha significato, come si è visto, cose diverse per diversi soggetti. Il dato di fatto significativo è per tutti il cambiamento operato dalla nascita di una società di massa e della conseguente cultura di massa. Questo dato è sottolineato in modo inequivoco da Octavio Paz, come ricordato nel mio articolo:
“Per la prima volta, dall’epoca romantica, non è comparso negli ultimi trenta anni nessun movimento poetico di rilievo. E lo stesso avviene nelle altre arti”. (La otra voz. Poesìa y fin de siglo, Ed. Seix Barral 1990, pag. 105; trad. mia). Molti sono gli elementi all’origine di questa situazione e di fatto riguardano i caratteri di una società di massa, dove lettori e scrittori sono cresciuti in modo esponenziale: “da un’inchiesta del 1988 emerge che 97 milioni di Nordamericani visitano musei di arte almeno una volta l’anno e 90 milioni sono i fotografi e 40 milioni coloro che studiano e praticano danza classica e moderna: e dunque non deve apparire incredibile il fatto che siano 42 milioni coloro che scrivono poesie e racconti (idem, pag.107).
La trasformazione della società ha portato un numero sempre maggiore di persone a vivere, “consumare”, più cose e in numero maggiore, e questo vale anche per i prodotti culturali. “Nel 1950...la pubblicazione del libro di un poeta già conosciuto…era di un migliaio di esemplari, oggi (1990) di quattro-cinquemila…Il poeta Ferlinghetti vendette un milione di copie di A Coney Island of the Mind e per allora Howl di Ginsberg aveva superato di gran lunga il milione…Il numero di lettori di poesia, negli ultimi 30 anni, è aumentato di dieci volte. Questo vuol dire che oggi si legge dieci volte di più che durante il periodo della preminenza di grandi poeti come Eliot, Pound, Williams e Stevens, (periodo) che fu un monumento di splendore nella storia della poesia del secolo XX.” (idem, pag. 77-78, trad. mia)”.
“C’è la presa di coscienza che la letteratura (e l’arte in generale) si trova in una fase nuova: l’arte non è morta, ma la nascita della società di massa ha fatto sì che la letteratura, e soprattutto la poesia, non siano più cibo per nobili e neanche per borghesi (il “popolo” del Romanticismo), tanto meno per i professionisti (autori o critici). La riflessione e il dibattito sul decadentismo o sull’ermetismo riguardavano non solo un numero ristretto di persone, ma soprattutto persone che appartenevano alla categoria dell’arte: tutto si è massificato, non tanto nel senso dell’uniformità, quanto nel fatto che ogni aspetto della vita sociale (dal diritto alla medicina all’arte) è patrimonio di tutti i componenti di una data società. Paz non è un idealista né un utopista, non sogna la società perfetta, in cui tutti fanno tutto e non ha bisogno di sollecitare gli individui a diventare poeti, perché essi già lo sono, tenuto conto delle cifre sopra riportate. Ai numeri citati, non diversi anche in Italia, vanno aggiunti tutti quelli che, di quando in quando, scrivono qualche rima, scherzosa o meno, oppure qualche racconto: va di moda parlare della propria vita e ciò viene fatto anche da persone molto sprovviste culturalmente.
“In questo caso (la comprensione di un testo, ndr) tempo vuol dire cultura, nel senso originario del termine: il lettore deve coltivarsi. Questa coltivazione, come tutte, è produttiva: implica cambi e trasformazioni. Ogni nuova opera poetica sfida la comprensione e il gusto del pubblico; per goderne il lettore deve imparare il suo vocabolario e la sua sintassi. L’operazione consiste in un disimparare di ciò che si conosce e un apprendere ciò che è nuovo; il disimparare-apprendere implica un rinnovamento intimo, un cambio di sensibilità e di visione”. (La otra voz. Poesìa y fin de siglo: Ed. Seix Barral 1990, pag. 86; trad. mia).
Ed ecco come questo coltivarsi diventa con chiarezza la morte del poeta che scrive e la nascita del lettore come poeta che legge. Ciò non vuol dire che tutti meritano di essere pubblicati e letti nelle scuole e nelle Università, ma che il lettore per approfittare di ciò che legge deve procedere a “un cambio di sensibilità e di visione”. Egli deve trasformarsi, partendo dalle singole parole, dalla loro relazione e connessione, perché quelle parole che hanno trasformato il poeta trasformino anche il lettore. Non è un progetto di rigenerazione sociale, di creazione dell’uomo nuovo (comunista o super ariano), ma la condizione della poesia nella società di massa.
Il coinvolgimento del lettore nella produzione poetica comporta un cambiamento di sensibilità e di visione e dunque un modo nuovo di scrivere. Certo la crescita della società di massa fa sì che anche nel settore artistico il consumo di libri si sia allargato e con esso la produzione di libri; dunque le relazioni sono profondamente mutate uscendo dalla specificità dell’area: da autore ad autore, da autore a critico ad autore, da autore a borghesia a autore a borghesia a critico. E così torniamo al punto di partenza: “Per la prima volta, dall’epoca romantica, non è comparso negli ultimi trenta anni nessun movimento poetico di rilievo. E lo stesso avviene nelle altre arti”. (La otra voz. Poesìa y fin de siglo, Ed. Seix Barral 1990, pag. 105; trad. mia). Allo stesso tempo The joy of sex di A. Comfort ha venduto più di otto milioni di copie, Il codice Da Vinci 80 milioni, Il mondo di Sofia 40 milioni, e così tanti altri romanzi, il cui successo si è legato anche alla riproduzione cinematografica.
Non è né un male né un bene, ma il frutto della cultura nella società di massa. Continuare a imitare i grandi dell’epoca precedente rende la situazione ancora più stagnante e impedisce quel rinnovamento di cui la poesia ha bisogno.
“Lo spazio dedicato a Paz si è reso necessario per la tesi che sostengo e non riguarda né la grandezza del poeta né la profondità del saggista né un affetto particolare. Lo studio di Paz mi ha portato a comprendere che il suo lavoro rappresenta il ponte tra un’epoca, quella della poesia moderna iniziata con Baudelaire, e la nuova epoca che fa fatica a venir fuori. Dobbiamo a Montale e a Paz la percezione (e l’acquisizione) della fine di quell’epoca: Montale, una delle massime espressioni di quell’epoca, e Paz, il poeta che ha portato quelle radici un po' oltre.”
Per quanto riguarda Montale credo che dobbiamo soffermarci sulla sua ultima produzione, quella seguita a La bufera e altro, perché lì si capisce il senso di crisi vissuta dal Premio Nobel. La Bufera è del 1956, Satura è composta nei dieci anni successivi, poi abbiamo Diario del ’71 e del ’72 e subito dopo Quaderno di quattro anni; ci sono poi anche Poesie diverse e Altri versi, mentre contemporaneamente egli pubblica un centinaio di articoli l’anno soprattutto ne Il corriere della sera.
Il lettore attento e appassionato riconosce subito un salto tra le prime tre raccolte e le successive. Non è solo una mia impressione; nell’Introduzione al volume Tutte le poesie nell’edizione Oscar Mondadori anche Giorgio Zampa, uno dei più importanti critici letterari del Novecento e curatore delle opere di Montale, mette in evidenza questo scarto: “…(Satura) pone in atto un procedimento di decantazione verbale…Il poeta converte i termini della propria poesia…in linguaggio colloquiale, ironicamente trito” (pag. XLVII, op. cit.) e poi “Si è parlato di scoloritura della materia verbale, di appiattimento del rilievo, di attenuazione dell’incisività, rispetto alle prime tre raccolte. Da Satura in avanti il colore dominante è quello della grisaglia…Il verso diventa sempre più discorsivo, la poesia assume il mimetismo di una quasi-prosa piena di solecismi (parlare scorretto, ndr), luoghi comuni, frasi fatte senza neppure il soccorso o l’alibi delle virgolette” (pag. XLIX, op. cit.).
Naturalmente non si tratta di dare un giudizio, positivo o negativo che sia, né di giustificare queste opere solo perché frutto di un grande poeta, per giunta Premio Nobel, ma di comprendere dentro la sua produzione complessiva il senso di questa differenza. “Nel giugno del ’77 (Montale scrive): Ho scritto un solo libro, di cui prima ho dato il recto, ora dò il verso” (pag. LIII, op. cit). Questo per non considerare le ultime opere o degli incidenti di percorso o delle parentesi.
Nelle ultime opere Montale è ancora il poeta che conosciamo e allo stesso tempo è qualcosa di profondamente diverso; molte poesie potrebbero appartenere alle prime raccolte, mentre per molte altre vale quanto evidenziato da Zampa e lasciano nello stupore e poi nella perplessità il lettore attento e affezionato. Ci sono poi poesie che per la quasi totalità si muovono in espressioni più che comuni, spesso legate alla cronaca quotidiana, e che terminano con un paio di versi di maggior significato.
Non mi è possibile in questa sede dilungarmi sui differenti casi, rinvio a una lettura anche rapida di quelle opere. Solo per dare un’idea a chi si è fermato giustamente alle prime tre grandi opere, riporto in Appendice una piccola raccolta di titoli, che, seppur non possono riassumere il testo, forniscono almeno un’indicazione. A fianco la pagina dell’edizione citata.
Che esista dunque una crisi dell’arte, della letteratura e in particolare della poesia è evidente dalle parole di molti protagonisti. Tra l’altro, a proposito di Montale, va ricordato quanto il poeta disse nel discorso fatto a Stoccolma alla consegna del Premio Nobel:
“Si potrebbero moltiplicare le domande con l'unico risultato che non solo la poesia, ma tutto il mondo dell'espressione artistica o sedicente tale è entrato in una crisi che è strettamente legata alla condizione umana, al nostro esistere di esseri umani”.
E sempre con riferimento a Montale e alla differenza di pubblico di cui parla Paz vale la pena ricordare che l’edizione del 1927 di Ossi di seppia è di 450 copie, Finisterre del 1943 è di 150 copie, La bufera e altro del 1956 è di 1000 copie, Xenia del 1966 è di 50 copie.
Ma cosa vuol dire crisi? Ho citato ancora Montale e Paz non perché siano gli unici ad aver mostrato questo aspetto, ma sono coloro che meglio di ogni altro, anche per la loro levatura e posizione, hanno fornito delle indicazioni.
Diversi sono i percorsi individuati negli ultimi 50 anni.
Per molti si tratta di continuare come è stato fatto in precedenza usando il verso come espressione della persona, attraverso una sintassi non narrativa e che dunque punta di più sull’intensità che non sull’estensione. Diciamo che questa scelta coinvolge sia i professionisti come Parini sia i neofiti, giovani e meno giovani, che cercano di dare una forma non occasionale ai propri pensieri e alle manifestazioni della propria esistenza. Ne troviamo tracce un po' ovunque dai giornalini scolastici ad agende e pubblicazioni serie ai numerosi Premi Letterari che cercano meritoriamente di stanare il talento poetico.
Per altri si riscopre il legame antico e originario tra il testo e la musica e si lavora in questa direzione, con esiti tra i più svariati: si va così dalle numerose canzoni che, eccetto casi particolari, producono un assemblaggio di parole che ricorda la poesia moderna fino ai riconoscimenti più prestigiosi come è successo con Bob Dylan che ha ricevuto nel 2016 il Premio Nobel per la Letteratura «Per aver creato nuove espressioni poetiche nell'ambito della grande tradizione della canzone americana”.
In questo ambito vanno ricordati i numerosi e continui Festival della Poesia, veri e propri happening che hanno avuto in Italia un esempio veramente impressionante nella tre giorni di Castelporziano del giugno 1979 con un pubblico che passò da mille a 30.000 persone e la presenza di poeti americani della Beat Generation e di riconosciuti poeti italiani, ma dove protagonista fu il pubblico e non la poesia. La recitazione in pubblico di poesie è diventata sempre più frequente e per alcuni è la vera e unica possibile risposta alla crisi della poesia. Nei paesi anglosassoni è diventato il futuro della poesia, esaltata anche dal contributo femminile, come scrive Il foglio nell’articolo del 3 febbraio 2020, dal titolo La poesia è femmina: “La poesia si presta a tutto, sempre di più, e fattura, sempre di più, anche se non esattamente vendendo libri ma animando spettacoli, concerti, storytelling, relazioni (di quelle da mettere in tasca e non al dito, come piacciono a noi), dischi, filastrocche, pubblicità, festival, terapie)
Come KateTempest, Tracy K. Smith, Premio Pulitzer (per la Poesia, ndr) nel 2012; lavora sulla musicalità della sintassi, racconta l’identità come una strada e non una casa, scrive versi carnali ma asciutti, precisi. La precisione e l’esattezza della poesia contemporanea, soprattutto di quella femminile occidentale, sono un lascito dell’incontro con il rap, … il bisogno di parlare dei confini, delle vite che si sprecano nel disamore, nella disattenzione, nella povertà, nella noia. Condivide la rabbia appassionata, lo spirito di osservazione e punizione, la prima persona, la trascrizione del vissuto, la volontà chiara di trascinare chi la ascolta in un gorgo, e di scrivere per mettere in pericolo chi legge”.
Montale, proprio nel discorso per il Nobel, aveva giocato d’anticipo: “In tale paesaggio di esibizionismo isterico quale può essere il posto della più discreta delle arti, la poesia? La poesia cosiddetta lirica è opera, frutto di solitudine e di accumulazione. Lo è ancora oggi ma in casi piuttosto limitati. Abbiamo però casi più numerosi in cui il sedicente poeta si mette al passo coi nuovi tempi. La poesia si fa allora acustica e visiva. Le parole schizzano in tutte le direzioni come l'esplosione di una granata, non esiste un vero significato, ma un terremoto verbale con molti epicentri. La decifrazione non è necessaria, in molti casi può soccorrere l'aiuto dello psicanalista. Prevalendo l'aspetto visivo la poesia è anche traducibile e questo è un fatto nuovo nella storia dell'estetica. Ciò non vuol dire che i nuovi poeti siano schizoidi. Alcuni possono scrivere prose classicamente tradizionali e pseudo versi privi di ogni senso. C'è anche una poesia scritta per essere urlata in una piazza davanti a una folla entusiasta…L'arte-spettacolo, l'arte di massa, l'arte che vuole produrre una sorta di massaggio fisico-psichico su un ipotetico fruitore ha dinanzi a sé infinite strade perché la popolazione del mondo è in continuo aumento. Ma il suo limite è il vuoto assoluto.”
A partire da queste riflessioni, da questi dati e da queste informazioni è estremamente difficile dire con discreta approssimazione quale sarà il futuro della poesia (e della letteratura e dell’arte in genere), ma si può cercare di individuare qualche orizzonte non del tutto campato in aria e neanche frutto di un pio desiderio.
Un primo scenario è che la crisi della poesia moderna, cioè della poesia di creazione, non produca se non quello che stiamo vivendo in questi decenni: un’imitazione, più o meno ermetica, dei grandi del passato recente, con un’insistita avventura di tipo tecnico sia nella tessitura delle parole sia nelle manifestazioni esterne.
Un secondo scenario è una propaggine del precedente, con l’estensione del marchio di poesia a tutti gli aspetti della vita umana, come è sempre più visibile negli spettacoli d’intrattenimento: si sente dire spesso che la cucina è poesia, un balletto è poesia, un abito una borsa un paio di scarpe sono poesia.
Un terzo scenario è quello che fatica a esprimersi e che vedo discendere dalle riflessioni e dalla produzione di Montale e di Paz. Naturalmente è l’idea che io ritengo la più adeguata a dare un nuovo impulso all’attività poetica. Essa si muove su delle conferme e su delle novità, come tutte le cose in fondo.
Le conferme. Innanzitutto la poesia non è più poesia di rappresentazione, ma è poesia di creazione, nel senso ormai noto a partire da Baudelaire e di cui ho parlato nei precedenti articoli. Questa poesia non è più rinchiusa in strutture e in strumenti definiti (versi, rime, figure retoriche ecc.) come pure non ha un orientamento predeterminato e selettivo anche se il punto di partenza rimane quello di scavare dentro la propria anima. Contemporaneamente questa poesia si avvale della parola come l’elemento decisivo e unico perché quell’operazione possa realizzarsi, riconoscendo alla parola il valore di realtà al pari delle cose.
Le novità. Queste si collegano direttamente a quanto individuato da O. Paz.
La frase più volte da me citata tratta da “Corriente alterna” è uno snodo importante: “Aperto o chiuso, ogni testo poetico esige l’abolizione del poeta che lo scrive e la nascita del poeta che lo legge”. Questo passo modifica il tradizionale rapporto autore-lettore tutto sbilanciato sul primo e introduce nella produzione e diffusione della poesia il pubblico, come in fondo avviene in tutti i campi da quando si è creata una società di massa. Il pubblico non si limita al consumo, non si limita a fruire nella maniera che preferisce il testo, ma ormai lo fa proprio rielaborandolo o meglio metabolizzandolo. Il poeta moderno, cioè il poeta che crea (se stesso e il mondo), si insinua nelle pieghe del lettore e lo modifica, nelle forme che questi decide: si va dal semplice entusiasmo estetico, che lascia poche tracce, all’arricchimento culturale, che servirà solo in certi ambiti, alla trasformazione di sé attraverso una disponibilità a farsi modellare. Il lettore sboccia alla vita nelle forme di cui dovrà assumersi la responsabilità e l’autore esce di scena.
La rigidità di una società non pienamente aperta né sviluppata in modo complesso comportava una relazione unidirezionale tra autore e pubblico che aveva bisogno di un mediatore, prima il maestro poi la radio e la televisione, e coinvolgeva il totale degli autori da un lato, ma solo un numero ridotto di lettori dall’altro. Da alcuni decenni invece le carte sono state scombinate e ci troviamo di fronte a un’interconnessione reticolare tra gli autori che nel frattempo sono cresciuti di numero e i lettori che ormai sono tutta (o quasi) la popolazione. Questa interconnessione, reticolare e ricorsiva, fa in modo che l’hub principale della rete sia l’individuo, dal momento che l’autore è sempre stato lettore mentre solo ora il lettore diventa anche autore.
Questo è ciò che la frase di Paz dis-viluppa, diventando un punto nodale della prospettiva letteraria, e poetica in particolare. Ne conseguono altri tre aspetti.
Il primo riguarda il fatto che la centralità dell’individuo-autore significhi assunzione di responsabilità rispetto all’IO soggetto che rifiuta il comune SI generico, artefice di qualcosa di non autentico, come l’opinione comune, la chiacchiera, la curiosità, l’equivoco. Il poeta deve parlare di sé, non nel racconto della cronaca quotidiana, ma nello svelamento di quelli che sono gli elementi fondanti della sua trasformazione, perché solo questa permette la costruzione della persona.
Il secondo riguarda l’aspetto più propriamente formale della poesia. La poesia moderna è libera in tutti i sensi e si differenzia dalla prosa solo perché non occupa tutto lo spazio della pagina, diversamente dalla prosa (etimo: prorsum, vado avanti) che va a capo solo quando trova il limite del foglio. Questo fatto presuppone che il verso abbia bisogno di una concisione che il dispiegarsi della prosa non permette. Di fatto dietro questo c’è un altro presupposto: che la prosa abbia bisogno di un’esposizione più ampia, diluita, diffusa perché essa deve spiegare, chiarire, informare, mentre la poesia non ha bisogno di questa esigenza perché alla sua base l’uso della sintesi dovrebbe giustificare una maggiore capacità di andare in profondità. E’ vero che anche la prosa si è modificata, grazie soprattutto al flusso di coscienza (vedi in particolare l’Ulisse di Joyce), ma romanzi, racconti, novelle nella loro quasi totalità cercano di spiegare e, se non ci riescono, ciò è vissuto come mancanza. Quindi la poesia continua ad occupare solo una porzione di spazio della pagina seguendo, diversamente da prima, la libera fantasia dell’autore e le regole (spesso improvvisate) che questi si dà.
Ho fatto questa premessa per arrivare al secondo aspetto.
La poesia moderna, quella ufficiale, ha scavato dentro l’anima del poeta, andando nelle profondità di questa e portando alla luce tutto quello che in quelle profondità veniva trovato, chiaro o oscuro, inconscio o cosciente, limitato e limitante. Non dico che quel lavoro abbia esaurito le possibilità di ricerca umane, ma sicuramente ha richiesto una enorme mole di lavoro e ha prodotto risultati di notevole ampiezza.
La poesia di oggi continuerà, anzi sta già continuando, ma non può ridursi a questo e deve cominciare a riunire ciò che quello scavo ha portato alla luce, deve cominciare a riprendere i singoli fili, collegarli e cercare di tesserli insieme. Non si tratta di arrivare a nuove teorie che procedano ad unificazione, ma il poeta deve cominciare a individuare percorsi che cerchino di rimettere insieme quelle macerie che laggiù, nel profondo delle nostre anime, ha scoperto.
Ripeto: evitando unificazione e onniscienza, evitando dunque l’ideologia e la religione come sistema.
Per fare questo il poeta deve usare la libertà che gli è propria per aprirsi, usando se necessario anche la prosa: non è la scelta già sperimentata dei versi in prosa, ma il percorso con il quale l’anima cerca di ricucire i brandelli di tessuto che lo scavo ha trovato. E’ con questa consapevolezza e con questa poetica che quello scavo prodotto dalla parola può evitare di disperdersi nella quasi infinita ramificazione che è la vita delle persone.
Rispetto al passato della classicità la modernità ha messo in evidenza il carattere di crisi dell’esistenza umana, qualcosa di non risolvibile in modo semplice o automatico: prima bastava seguire alcuni principi morali o alcune indicazioni pratiche per superare i problemi, le difficoltà del vivere; con la modernità, espressione di una maggiore complessità, la crisi dell’uomo è qualcosa di ineliminabile con cui convivere e da saper affrontare per raggiungere un livello di maggiore consapevolezza e felicità. Nella modernità il peso del passato portava talvolta a polarizzarsi o verso la distruzione o verso la soluzione: nel primo caso la Speranza era morta, nel secondo si inventava un Sol dell’Avvenir. Ma la migliore letteratura ha saputo evitare sia l’autodistruzione sia il salto ideologico in avanti. Ed eccoci dunque all’oggi. Tutto quello scavo non può annientarsi nell’autodistruzione né fingere che basti resuscitare un qualche valore assoluto per andare avanti; tutto quello scavo deve cominciare a essere metabolizzato, partendo dalla convinzione che è possibile un processo di (ri)costruzione. Una costruzione non definitiva e tanto meno universale e assoluta, ma una costruzione nuova che sa usare sia i mattoni dei vecchi edifici sia nuovi materiali sia nuove idee.
L’ultimo aspetto che deve orientare l’autore riguarda proprio la complessità dell’individuo che è diventato l’hub della rete presente. La società di massa e la cultura di massa hanno creato un individuo che possiede informazioni a 360°: mio nonno faceva il maniscalco, il contadino, il soldato e non si sarebbe sognato di dire qualcosa di medicina, letteratura, economia. Oggi invece qualsiasi individuo, grazie più ai mass media che alla scuola, sa qualcosa di tutto, quale che sia la sua età, il suo genere, la classe o la regione di provenienza. Sono famose le battute dei medici sui pazienti internettizzati.
E’ un dato di fatto. Di cui prendere atto. Da cui partire. Competenza e responsabilità.
La poesia (e la letteratura in generale) degli ultimi 150 anni ha visto una contrapposizione tra chi, scambiato spesso per solipsista, ha indagato sull’esistenza umana a partire da sé e chi ha ritenuto necessario introdurre riferimenti storici e sociali nei quali spesso si è perduto, trovandovi il facile Verbo. Eppure la divisione non è mai stata netta e i poeti moderni che hanno lasciato un segno più marcato sono quelli che hanno preferito scavare dentro se stessi, dentro il proprio IO, un IO che era un insieme complesso di esperienze, conoscenze, sentimenti, idee, pensieri e tanto altro. Oggi siamo oltre questa divaricazione, siamo oltre il noto conflitto tra Proust e Sainte-Beuve su quanto il poeta dovesse essere presente nelle sue opere, siamo oltre perché l’individuo, questa figura centrale della società e della poesia contemporanee, è molto più complesso sia dell’autore di un tempo sia dell’individuo-massa. Per certi versi è una figura mostruosa, perché è un coacervo di entità confuse, di varia e dubbia origine, molto disordinato e provvisorio, convinto di essere un motore immobile se non fosse per quelle rotelle interne che girano e che lui non vede e spesso non vuole vedere. E’ così che il lettore-autore, per le sue caratteristiche e per la sua responsabilità, non può limitarsi a far parlare la fantasia oppure a lasciare libero il proprio istinto: il poeta, che si esprimerà per essere qualcosa di diverso dal compitino delle elementari, deve fare i conti con se stesso, ma per farlo deve avere un minimo punto di partenza del “se stesso”, sapendo che quel “se stesso” è qualcosa di arbitrario e tanto meno si presenta come solida figura inattaccabile.
Egli deve lasciare sempre aperto un varco, una porta, una maglia rotta, l’accesso del tarlo, la piaga che geme, perché è da lì che inizierà il processo di creazione attraverso la parola. La responsabilità non risponde ai valori incisi sulla pietra, ma è una relazione tra le parole prodotte e il “se stesso” che in quel momento le ha prodotte. La frase di Paz sulla morte del poeta-autore e la nascita del poeta-lettore oggi vale anche, e soprattutto, per l’individuo che si accinge a comporre, perché è lui sia l’autore che deve morire sia il lettore-poeta che deve nascere ed essendo, sempre lui, divenuto autore dovrà nuovamente morire. E così via.
Per essere un autore credibile, semplicemente credibile, egli deve sottoporre “se stesso” a un continuo confronto con le numerose parti che lo caratterizzano e non si tratta più solo di esperienze, conoscenze, sentimenti, idee, pensieri, ma di due elementi molto più marcanti: il primo è l’insieme di tutto ciò che, come la polvere, ha scelto di nascondere sotto il tappeto e che ora deve cominciare a rimuovere da lì sotto; il secondo riguarda l’insieme delle acquisizioni, generali e disciplinari, frutto -come ho mostrato- della società di massa contemporanea.
Questo individuo è il protagonista della storia contemporanea e repelle ai più se paragonato ai personaggi pubblici del passato, ma la sua centralità non ha nulla di morale, è solo un elemento funzionale, frutto dell’autorganizzazione sociale e trova il suo corrispettivo nel successo della democrazia, nel crollo della povertà, nelle migliori condizioni di vita. Non è più neppure un problema statistico, difficile da verificare visto che ci troviamo ad operare in un contesto completamente diverso. Il passato ci spinge a ragionare sempre in termini morali, mentre dovremmo imparare a convivere con questa entità, hater liar faker inetto egoista superbo iroso e tutto quello che ognuno vuole vederci, anche perché esso ci appartiene e noi ne riflettiamo la luce (e il buio). A noi deve interessare che lui è al centro della rete sociale e soprattutto si sente il centro della stessa.
E’ lui il poeta che già oggi riempie le pagine con i propri pensieri. E’ da lui che dobbiamo aspettarci però qualcosa di più dei suoi pensieri.
Una poesia che scava dentro l’anima, una poesia che rappresenta la traccia della trasformazione dell’individuo, una poesia che deve cominciare a cucire i brandelli portati alla luce, una poesia che fa i conti con l’insieme delle esperienze e delle acquisizioni che lo conformano.
APPENDICE MONTALIANA POST-BUFERA
SATURA
Caro piccolo insetto 289
Al Saint James di Parigi dovrò chiedere 291
“Pregava?”. “Sì, pregava Sant’Antonio…” 298
L’abbiamo rimpianto a lungo l’infilascarpe 307
Ho appeso nella mia stanza il dagherrotipo 317
L’alluvione ha sommerso il pack dei mobili 318
Déconfiture non vuol dire che la crème caramel 322
Vedo un uccello fermo sulla grondaia 351
Provo rimorso per avere schiacciato la zanzara 360
L’Arno a Rovezzano 381
Il grillo di Strasburgo notturno col suo trapano 416
DIARIO DEL ’71 E DEL ‘72
Corso Dogali 431
Il pirla 442
A quella che legge i giornali 444
Il Lago di Annecy 448
Il frullato 453
Il trionfo della spazzatura 459
La Fama e il Fisco 478
La pendola a carillon 488
Sorapis, 40 anni fa 514
In hoc signo 516
Al mio grillo 519
QUADERNO DI QUATTRO ANNI
Testimoni di Geova 551
Pasquetta 564
Ho sparso di becchime il davanzale 566
I pressepapiers 581
Sul Lago d’Orta 582
L’obbrobrio 601
Hamburger steak 630
Locuta Lutetia 637
ALTRI VERSI
Le pulci 652
Una zuffa di galli inferociti 674
Nixon a Roma 694
Luni e altro 711