Quando la malpractice medica porta alla morte di un paziente
La malpractice medica o errore medico risulta essere, sia in ambito penalistico sia in ambito civilistico, uno degli aspetti più complessi e impegnativi nell’operato di un medico legale. Sono sempre più frequenti casi di vittime di malasanità ed errore medico da parte di professionisti che piuttosto che risolvere le loro problematiche hanno causato danni a volte anche irreparabili.
Oggi vi parlo di una signora portata in ospedale a seguito di una coronarografia che evidenziava una “severa coronaropatia trivasale”. Ricoverata quindi con diagnosi di “angina da sforzo”, la paziente veniva sottoposta ad un intervento chirurgico di “rivascolarizzazione miocardica mediante impianto di arteria mammaria interna su IVA e duplice by-pass aortocoronarico in vena safena su ramo intermedio e coronaria destra in circolazione extracorporea”. Alla fine dell’intervento la paziente fu trasferita in terapia intensiva dove in prima giornata post-operatoria fu svezzata da ventilazione meccanica ed estubata per poi essere nuovamente intubata per insorgenza di insufficienza respiratoria ed edema polmonare nonostante i numerosi tentativi di ventilazione mediante NIV con mascherina. Nei giorni a seguire la paziente sviluppò una ARDS con picchi di iperpiressia ed insufficienza renale ed epatica fino al decesso. La particolarità è data dal fatto che la paziente fu sottoposta ad intervento chirurgico soltanto tredici giorni dopo il ricovero: tutto ciò è in evidente contrasto con i caratteri di urgenza anatomica evidenziati dalla coronarografia (IVA occlusa, ramo intermedio critico, ramo marginale sub occluso) ma soprattutto stupisce la decisione di non operare la paziente nel momento in cui la situazione clinica diveniva davvero “instabile”, allorquando la paziente ebbe ben due episodi di dolore toracico tipici che vennero trattati con terapia coronarodilatatrice (nitrati) ed antidolorifica (morfina). Proprio il beneficio che ne derivò dall’assunzione di tale terapia avrebbe dovuto far scattare nel medico di guardia notturno e nei sanitari che avevano in cura la paziente l’allarme che fosse in atto una crisi anginosa classica e, sebbene non fossero in atto segni all’ECG di infarto, non fu presa alcuna decisione di approfondimento oltre alla somministrazione della banale terapia sintomatica. La buona pratica clinica infatti avrebbe voluto che fosse eseguito già durante la notte o al massimo il mattino seguente un prelievo per dosaggio di enzimi di miocardionecrosi che avrebbero potuto indirizzare verso scelte più invasive di quelle attendistiche che invece furono invece intraprese. La paziente fu addirittura operata tre giorni dopo l’episodio in esame. Il suo decesso si è verificato a seguito di complicanze legate all’intervento di rivascolarizzazione miocardica.
La contestazione non verte su tale evento imprevedibile e che rientra nel rischio operatorio (peraltro basso nel caso in esame) ma bensì nella pessima gestione del pre-operatorio e nelle gravi mancanze verificatesi nel post-operatorio allorquando la paziente, nonostante il rialzo notevole della troponina associata a edema polmonare e scompenso ventricolare destro, non fu sottoposta a nuova coronarografia che avrebbe potuto evidenziare l’incompletezza della rivascolarizzazione miocardica o il failure precoce di un graft confezionato, né tantomeno, allorquando si verificò la disfunzione ventricolare destra, di monitoraggio invasivo delle sezioni destre con le scelte terapeutiche che ne sarebbero conseguite.
In conclusione, si rilevano profili di responsabilità medica imputabili ai sanitari del reparto di Cardiochirurgia dell’ospedale che ebbero in cura la paziente, i quali negligentemente, non rispettando la buona pratica clinica, non misero in atto precocemente tutte quelle procedure terapeutiche che sicuramente avrebbero consentito di salvarle la vita.