Quando Napoli andava a vela
Conosco poco il mare, anche se non dista molto da quelle zone che una volta erano i “casali” del Regno di Napoli da cui provengo. Leggere “Quando Napoli andava a vela – Racconti di mare e di un tempo che fu” di Carlo Franco è stato come avvicinarmi fisicamente alla costa, o meglio al Molosiglio, immaginandolo come la soglia oltre la quale queste barche, con le loro enormi vele, solcano il mare: vele, e non bandiere che si dirigono dove soffia il vento, ma che l’acchiappano!
Qualche tempo fa ho riletto “il mare non bagna Napoli” di Anna Maria Ortese il cui titolo riecheggia anche nell’istallazione artistica di Bianco-Valente. La storia di Napoli è costellata di eventi belli e brutti, talvolta quelli brutti sono esaltati maggiormente rispetto ad altri; ma trascinato dall’amore della terra su cui posano le mie radici mi ostino a pensare che Napoli non è solo “Gomorra”.
Le parole di Carlo mi hanno dato una boccata di ossigeno; un soffio di vento per restare in tema. Mi verrebbe da dire che il mare bagna ancora Napoli, soprattutto se qualcuno riesce a far alzare un po' di vento. Non si smentisce l’autore, in ogni singola riga del suo lavoro non riesce proprio a nascondere l’amore per la sua terra; molti lo ricorderanno per l’articolo pubblicato sul Mattino dopo tre giorni dalla catastrofe del terremoto del 1980 dal titolo “FATE PRESTO”. Non si è mai stancato di fare il cronista, uno di quelli che le storie che scrive le vive in prima persona.
Ha pubblicato un lavoro denso ed articolato, ha scelto di far parlare i fatti, attraverso i protagonisti di una storia nemmeno tanto lontana. Ora anch’io so cosa abbia significato e cosa tuttora significa per la città quell’intima vicinanza al mare, con cui, come l’autore non smette mai di denunciare, ha avuto rapporti altalenanti, ma dove si riesce ad intravedere una linea di congiunzione, fatta di uomini, imbarcazioni, circoli, che, come se fossero un tutt’uno, non hanno mai smesso di frequentarsi.
Lo spazio in cui avvengono i fatti sono le coste del golfo di Napoli, il tempo si dirige nel prima e nel dopo del fatidico 1960. Un racconto avvincente, arricchito anche da Paolo Rastrelli che ci regala un appunto da non dimenticare: “Il progresso corre in avanti ed è inarrestabile. L’unico errore che le nuove generazioni non dovrebbero fare è dimenticare il passato, perché è nel passato che ci sono le radici del nostro futuro”.
Il racconto dispiega le vele su un personaggio che gli amanti della vela conoscono bene, un certo Agostino Straulino, napoletano di fatto e non di nascita; ciò denota quanto la napoletanità sia non solo genetica ma anche “atmosferica”. Lo stesso Lucio Dalla, napoletano d’adozione, ho scoperto in questo lavoro aver contribuito, e non poco, al sostentamento della nautica napoletana.
Non poteva non iniziare questo racconto che con le parole di un mastro d’ascia; nel vedere la Star, che tanto ha dato alla vela napoletana, la definisce una “cassa da morto”. All’apparenza può sembrare solo dispregiativa come locuzione, ma se si conosce un po' la napoletanità la morte aleggia sempre incombente, con tutto il correlato di ritualità che rimandano ad essa. La lingua napoletana, priva delle coniugazioni verbali declinate al futuro, ritrova nel rafforzare le declinazioni presenti la possibilità di esprimere quello che verrà; la morte in un tale sistema linguistico potrebbe anche delineare, non solo la fine a cui rimanda, ma anche un fine, ed in effetti quella “cassa da morto” è un qualcosa che contiene e conterrà per sempre l’essenza della vela napoletana.
Non ci sono state solo le Star tra le imbarcazioni della scuola velica napoletana, ma tutte quelle che si usano nelle regate, una scuola da cui l’autore fa emergere i veri maestri, quei tanti marinai che popolano le banchine; riuscendo a sfatare un altro pregiudizio legato a questo sport, quello di essere di totale appannaggio di una certa élite.
Sembra intravedere uno sport che si declina solo nella dimensione passionale, fuori da quegli ingaggi stratosferici di cui il calcio ci ha abituati; senza neppure tanto nascondere, ci lascia intravedere sul pelo dell’acqua su cui queste meravigliose barche si muovono, quello che lo sport debba significare. Lo sport come sfida innanzitutto verso sé stessi, dove bisogna superarsi, poi le vittorie arrivano di conseguenza.
Insomma, attraverso il racconto di Carlo Franco personaggi come piscione, Carlo Rolandi, Pippo Dalla Vecchia, per citarne solo alcuni, diventano un tutt’uno con l’albero su cui si issano le vele, finendo per far diventare le imbarcazioni un qualcosa di molto umano; i nomi che si danno alle stesse me lo confermano.
Attraverso questo racconto non solo raccogliamo una storia, ma l’autore ci invita a non perdere la rotta; proprio come i velisti napoletani, i timonieri, che riescono tenendo l’orecchio sul timone ad accorgersi del più piccolo soffio. Oltre ad una storia si coglie la metafora della nostra bella Napoli, che non solo è bagnata dal mare, ma insieme, uniti, come nell’occasione dell’olimpiade del 1960, acchiappa il vento nella vela ed affronta il mare, la vita.
Carlo con questo racconto ci dà un soffio di vento, ci auguriamo che le istituzioni e le politiche del territorio lo acchiappino nelle vele, per portare lontano Napoli, usando quel potenziale che la natura ci ha donato, il mare e la conca del golfo: un vero stadio del vento.