Quando un silenzio inteso male è peggio di un malinteso | L’importanza di capirsi a ogni livello
Il 5 Aprile 1945, all’età di 65 anni, dopo aver guidato il suo paese durante un periodo critico della Seconda Guerra Mondiale, in seguito alla notizia dello sbarco americano a Okinawa, il Generale e Primo Ministro del Giappone Kuniaki Koiso si dimetteva.
Il 7 Aprile 1945, all’età di 77 anni, il barone Suzuki Kantarō già vice ammiraglio, ammiraglio e poi Generale della Marina giapponese, miracolato ad honorem dal 1936 dopo essere sopravvissuto un attentato con armi da fuoco che lo colpirono a testa, inguine, braccia e gambe, venne richiamato dalla pensione per coprire il seggio vacante di Primo Ministro. Obiettivo: negoziare condizioni di pace più favorevoli con gli Alleati.
Il 12 aprile del 1945, negli USA, Harry Truman (di anni 61, quindi tutti profili Senior) prendeva il posto del defunto Franklin D. Roosevelt.
Lo stesso Truman che ad agosto dello stesso anno, durante un gabinetto di guerra, dopo aver verificato che il suo omologo giapponese non era in grado di negoziare condizioni di pace più favorevoli con gli Alleati, lo chiamò e disse:
“Hi Kantaro, what do you think about la Dichiarazione di Posdam del 26 of July? I’m waiting coi mie bro for an answer!”
Probabilmente a causa del fuso orario, dall’altra parte della cornetta, un assonnato Suzuki rispose:
“Mokusatsu”
Piccola digressione. Mokusatsu potrebbe rientrare perfettamente in un errore di digitazione del prefisso internazionale ed effettivamente Truman potrebbe aver parlato con un calabrese che gli avrebbe risposto nella versione estesta “mo’ ku satsu, tu 'u dicu”.
Questa ipotesi è al vaglio tra gli storici più accreditati di tutto il globo.
Comunque, destino vuole che mokusatsu in Giapponese significhi “silenzio” (no comment - ci stiamo pensando Harry - non ho ancora riflettuto bene riguardo la tua proposta - mi confronto con i miei e torno da te) ma sia stato tradotto dagli americani come “vi ignoriamo con disprezzo”.
Alle strette dipendenze del primo responsabile della traduzione, ovvero General Leslie Groves di anni 52 (anche direttore del progetto Manhattan) c’erano ben tre persone che sapevano perfettamente il giapponese e che di mestiere traducevano conversazioni e documenti di guerra:
William O’Neil, Charles Lawton, Robert Harris. Tutti tra i 32 e i 34 anni, tutti profili Junior.
Cosa non abbia capito Groves dalla traduzione sicuramente precisa dei tre non è chiaro, qualche malpensante dice che per lo spirto belligerante degli americani potrebbe addirittura averlo fatto apposta, sta di fatto che Truman prima riagganciò e poi sganciò: Little Boy e Fat Man.
Per fortuna di questi errori ce ne sono anche di simpatici, come nel 1977 quando il Presidente americano Carter, in visita in Polonia, espresse la volontà di "conoscere i desideri del popolo polacco per il futuro" e il suo interprete lo tradusse come "vorrei fare sesso con il popolo polacco".
[se vi piaciono queste storie vi consiglio “111 errori di traduzione che hanno cambiato il mondo” di Romolo Giovanni Capuano, perfetto per il toilette reading]
Questi pretesti narrativi storici evidenziano l'importanza cruciale di una comunicazione precisa sia in situazioni ad alta posta in gioco, sia in ambiti meno formali.
Il primo punto è: vogliamo sentire o vogliamo ascoltare?
Nei contesti aziendali si osservano dinamiche simili, seppur con conseguenze meno catastrofiche, ma comunque significative per il business.
Questo accade soprattutto nel rapporto tra Senior e Junior, tra Mentori e Allievi, tra Passato e Presente (o tra Presente e Futuro se qualcuno si dovesse sentire tagliato fuori).
Su LinkedIn e in ambiti professionali emerge spesso come in organizzazioni con una struttura gerarchica definita, il gap generazionale, il divario di esperienze, aspettative e prospettive tra professionisti Senior e Junior possa facilmente portare a malintesi costosi.
Questi errori non si limitano a semplici disaccordi: possono tradursi in perdite di tempo, risorse e opportunità di mercato, oltre che generare frustrazione personale e attriti inutili.
La sfida è quindi duplice e reciproca:
Consigliati da LinkedIn
Il secondo punto è: non comunicare per avere ragione, ma per farsi capire.
La capacità di facilitare una comunicazione efficace tra questi gruppi quindi non è un semplice "nice-to-have", ma un vero asset strategico.
Le aziende che eccellono in questo ambito possono accelerare i cicli di innovazione, migliorare la crescita, la formazione e la retention dei talenti, ottimizzare il processo decisionale, aumentare la reattività alle dinamiche di mercato.
Mica poco se si pensa che nel bel mezzo del cammin di nostra vita, la rivoluzione portata dell’AI generativa e predittiva sta configurando uno scenario dove ci saranno team che dovranno investire ore per trovare il modo di farsi capire da una macchina attraverso lunghi processi di prompt enginiering.
Se ci interessa farci capire da una macchina credo sia stupido non farlo prima tra esseri umani, ma costruire questo ponte comunicativo, tuttavia, richiede allo stesso modo un approccio metodico e strutturato.
Il ruolo del leader diventa cruciale.
Sì, ancora lui. Sì, il poveretto che mentre cerca un po’ di ombra a Puna de Atacama, deve sentire questo tema come vitale e prioritario per la salute dell’organizzazione.
Per fortuna, le best practices delle aziende che hanno già affrontato questo problema suggeriscono alcune strategie chiave:
E se non lo faccio, cosa succede?
SPOILER: anche in questo articolo sto per citare la NASA e un problema di comunicazione, ma giuro che il contesto è diverso da quello del mio ultimo articolo e che non ho assolutamente nulla contro la NASA per non avermi mai scelto come astronauta.
Succede il disastro della sonda spaziale Mars Climate Orbiter.
Un progettino della NASA da 125 milioni di dollari che nel 1999 si disintegrò nell’atmosfera marziana perché il team leader di ingegneri e progettisti usava le unità di misura anglosassoni mentre il team di ingegneri e progettisti di supporto usava il sistema metrico decimale.
La differenza tra comunicare per avere ragione o comunicare con l’obiettivo di capirsi.
Quindi, cari leader, spronate i Senior e i mentori (e quindi anche voi stessi) a fare uno sforzo consapevole per adattare il loro linguaggio e le loro aspettative alle esigenze e alle comprensioni dei Junior e degli allievi.
Questo significa non solo comunicare in modo chiaro e accessibile, ma anche ascoltare attivamente e adattarsi ai cambiamenti e alle nuove prospettive che i giovani talenti portano con sé. In questo processo, la comunicazione non è un monologo ma un dialogo continuo, dove la comprensione reciproca è fondamentale per il successo dell'intera organizzazione.
D’altro canto, Junior e allievi talentuosi, esprimete le vostre intuizioni e non esitate a chiedere chiarimenti quando qualcosa non è chiaro. Non abbiate paura di confrontarvi con i "boomeroni" di turno e di sfidare le convenzioni, senza timore di giudizio e senza cercare di emulare qualcun altro che non siete. Siate voi stessi e, piuttosto che cercare di assomigliare a figure idealizzate, cercate di emulare i valori e i principi di chi vi ispira.
“It's communication, no matter what they say, we're in this thing together, never going astray” – The Cardigans
Founder & CEO of Hotpot Italia
3 mesiGrazie Thomas Bonci 🦄 articolo davvero interessante e puntuale!! Avanti tuttaaa