Scarsità ed etnocentrismo
Se, per il buon senso comune, una “società d’abbondanza” designa una società dove tutti i bisogni materiali dei propri membri sono facilmente soddisfatti, l’affermare che, prima del capitalismo, numerose società vivevano nell’abbondanza significa negare che la condizione umana sia una tragedia concertata e che l’uomo sia un forzato che pena perpetuamente in una continua disparità tra bisogni illimitati e insufficienti mezzi. In effetti, sarà il mercato a istituire la scarsità sotto una forma senza precedenti e a un livello mai raggiunto anteriormente. Là, dove la produzione e la distribuzione saranno guidate dal movimento dei prezzi e dove tutti i mezzi di sussistenza saranno legati al guadagno e alla spesa, l’insufficienza dei mezzi materiali diverrà il punto di partenza esplicito e misurabile di ogni attività economica. Mentre, in definitiva, la scarsità non è una proprietà intrinseca, ma l’espressione di un rapporto tra mezzi e finalità.
In tal senso, la scarsità costituisce la sentenza emessa dalla nostra economia, come pure l’assioma di gran parte dell’economia politica: la messa in opera di mezzi rari per la realizzazione di finalità selettive in vista di ottenere il maggior soddisfacimento possibile nelle circostanze date. Ed è, per l’appunto, in quest’ottica che spesso le realtà economiche anteriori vengono descritte attribuendo agli attori delle motivazioni simili alle odierne e delle tecniche estremamente primitive, decretando, in tal modo, la disperata condizione delle popolazioni del passato. Senza dimenticare che, se all’ora attuale, l’immagine che viene offerta delle residue popolazioni “tradizionali” sarà quella di gruppi di miserabili, con magre e instabili risorse, la ragione fondamentali rimanderà al colonialismo, con la sua sequela di distruzioni dell’habitat e delle risorse naturali.
da pag. 32 di "Utopia? Persistenze culturali ed economia"