Si fa presto a dire “mansioni superiori”.
Proprio così.
Quante volte nella pratica giudiziaria ci è capitato di affrontare ricorsi proposti da lavoratori che assumevano di avere svolto mansioni superiori rispetto a quelle formalmente assegnate dal datore di lavoro.
Ho qui una sentenza di un giudice di merito che ha il raro dono della chiarezza a proposito del procedimento “trifasico” al quale è tenuto l’interprete che si accosti alla soluzione di un problema sul piano delle mansioni superiori.
Il processo civile -e quello del lavoro in particolare- impone delle regole che talvolta noi operatori del diritto tendiamo a sottovalutare: sto parlando della delicata fase della “allegazione”.
In breve, nell'ambito di un complicato processo, il lavoratore ricorrente chiedeva l’applicazione dell’articolo 2103 c.c. e pertanto il trattamento corrispondente alla supposta mansione superiore.
In processi di questo genere, non è raro che le parti finiscano per affaticarsi in un’infinita fase istruttoria testimoniale (nel corso della quale, per inciso, capita milioni di volte ripetere al testimone la medesima domanda: “ma lei ha visto con i suoi occhi il ricorrente svolgere quella determinata mansione? Lavorava nello stesso turno del ricorrente? E così via, per poi trovarsi ad ascoltare le risposte più fantasiose).
Tuttavia, quel giudice di merito ha osservato (molto più semplicemente e chiaramente) che al lavoratore che ricorre non basta descrivere quali sia stata l’attività prestata per poter automaticamente vedersi riconosciuto l’accesso ad un livello superiore descritto dalla contrattazione collettiva, con quel che ne consegue in termini risarcitori:
“(…) In breve, non basta dire: Questi sono i compiti, questa è la disposizione contrattuale invocata, ma occorre esplicitare, e poi rendere evidente sul piano probatorio, la gradazione e l’intensità (per responsabilità, autonomia, complessità, coordinamento, ecc.) dell’attività corrispondente al modello contrattuale invocato, rispetto a quello attribuito (…) In materia, non è tuttavia sufficiente la deduzione e la prova dell’assegnazione a mansioni diverse ed inferiori a quelle proprie, ma, dimostrata questa premessa, è necessario dare la prova di tutto ciò che concretamente ha inciso in senso negativo sulla sfera del lavoratore (…)”.
Non voglio rubare altro spazio all'interessante Decisione, segnalo che nella parte conclusiva della stessa si potrà leggere una sintesi di rara chiarezza sul danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.) in relazione al danno biologico (art. 32 della Costituzione) e ai diritti inviolabili della Famiglia (art. 2, 29 e 30 della Costituzione).
Volentieri desidero condividere il testo della sentenza ottenuta che potrò inviare a tutti coloro ne faranno richiesta.
Avv. Fabrizio Proietti
Studio Legale Proietti, Forti, Bove - Roma