Siamo sicuri che i dati vadano interpretati ?
Leggo e ascolto, non di rado, l’importanza di interpretare i dati, quasi fosse in essi un messaggio da comprendere, che l’autore ha lasciato lì, latente, un messaggio che racchiude in sé il vero significato di un dato, un non so che di ontologico che, per essere rivelato, costringa l’utilizzatore del dato a rompere quella sorta di guscio ontico che lo cela, così da poter arrivare al vero significato, quasi fosse questo il risultato di una sfida semantica, che debba essere vinta prima di poter usare quel dato nella tranquillità che rappresenti ciò che noi abbiamo sperato rappresentasse[1].
Ora, se in un’opera letteraria questa sorta di messaggio nascosto è, non solo lecito, ma parte integrante di essa, qualcosa che, quando capito, vada dritto al cuore del lettore, rivelandogli ciò che l’autore realmente voleva comunicare, rappresenterebbe invece un forte elemento ostativo in un contesto aziendale, dove i dati devono necessariamente rappresentare una sorta di linguaggio universale e, per tale motivo, dovrebbero essere scevri da qualsiasi ulteriore sforzo interpretativo in aggiunta a quello che, l’autore del dato, ha profuso per arrivare alla sua definizione.
Un dato, in altre parole, dovrebbe essere tale che la sua componente intensionale sia così ben modellata e descritta da ridurre al minimo – se non azzerare – il rischio che diversi suoi utilizzatori se ne attendano un’estensione diversa, dove tale diversità deriva proprio da quella quota parte inevitabilmente soggettiva che è presente in ogni atto interpretativo.
Credo risulti abbastanza evidente che, tanto più un dato richieda uno sforzo interpretativo per essere ontologicamente compreso, tanto più alto sarà il rischio che questa sia viziata dalla componente soggettiva del soggetto interpretante, cosa che, a sua volta, eleverà il rischio di attribuire a quel dato un significato diverso e, quindi, a farne un uso che apparentemente, agli occhi dell’utilizzatore, sia coerente con i suoi obiettivi, ma che in realtà non lo sarà perché quel dato rappresenta qualcosa che l’utilizzatore non ha raggiunto o, peggio, non ha compreso.
Provando a dirlo in un altro modo, potremmo sostenere che un modello dati deve rappresentare una così precisa concettualizzazione del mondo di riferimento di un’azienda, da far sì che la sua comprensione richieda la quantità minima possibile di conoscenza del senso comune, inevitabilmente necessaria a completare quel non detto che si cela dietro alla concettualizzazione stessa. Quel non detto che rappresenta ciò che l’autore ha dato per scontato, assumendo che il suo pensiero sia anche quello degli altri, dimenticando – e credo che ciò sia inevitabile – che ogni concettualizzazione soffre sempre del “qui e adesso” e dall’intenzionalità che la caratterizza, per cui i dati vengono sempre modellati anche in base al percepito che l’autore ha nel momento in cui formalizza ciò che intende formalizzare.
Possiamo però realmente immaginare che l’uso dei dati possa sempre essere, per così dire, interpretation-free ? Ovviamente no, visto che è nella nostra natura dare sempre e comunque una lettura soggettiva di ciò che è stato prodotto da altri, una lettura soggettiva che è così tanto condizionata da elementi fattuali e temporali, che non sarebbe nemmeno ipotizzabile eliminare, perché la lettura che di qualcosa ne do oggi non sarà mai la stessa di quella che ne darò domani.
Se assumiamo, nostro malgrado, l’inevitabilità dell’atto interpretativo, possiamo però fare tutto ciò che è nelle nostra capacità per renderlo minimo, a tal punto che l’esiguità di ciò che la libera interpretazione aggiunge al significato del dato immaginato dall’autore sia tale da non comprometterne il corretto utilizzo, nel senso di rendere comunque altamente probabile che il dato sia effettivamente funzionale agli obiettivi di chi lo sta utilizzando.
Cosa fare, allora ? Come far sì che un dato sia così epistemologicamente accessibile da far sì che la sua interpretazione sia un atto residuale, che lo completi senza stravolgerne il significato ? Non molto, temo, ma qualcosa sì, come a esempio:
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Insomma, parafrasando quanto detto da Giulio Cesare - “Si non potes inimicum tuum vincere, habeas eum amicum” - non potendo sconfiggere la necessità dell’atto interpretativo, possiamo provare ad allearci con lui, facendo tutto quello che è nelle nostre capacità per minimizzarlo, fugando quanto più possibile i dubbi semantici che ciascuno ha quando legge qualcosa e che cercherà inevitabilmente di colmare, appunto, con la sua personale interpretazione.
[1] Ricordo che il vocabolario Treccani riporta, come primo significato della parola “interpretare”: “Intendere e spiegare nel suo vero significato (o in quello che si ritiene sia il significato giusto o più probabile) il pensiero d’uno scritto o d’un discorso il cui senso sia oscuro o dia luogo a dubbî”.