Transizione energetica: obiettivi, sfide, orizzonti
Con il contributo di Carlo de Nitto Personè, partner presso GIM Legal STA
L’accordo di Parigi – entrato in vigore nel 2016 – contiene un impegno vincolante per i paesi contraenti a limitare il riscaldamento globale ben al di sotto di 2°C in più rispetto ai livelli preindustriali, e comunque idealmente entro il grado e mezzo. La scienza più accreditata sostiene che per arrivarci occorrerà azzerare – non ridurre: azzerare – le emissioni di gas serra più o meno intorno a metà secolo. Gli Stati Uniti e l’Unione Europea si sono entrambe poste l’obiettivo di raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050, inaugurando così – assieme al resto del pianeta – la lunga stagione della transizione energetica.
La transizione sarà un prisma costituito da una varietà di profili, ma due dei più importanti saranno elettrificazione e decarbonizzazione dei settori industriali. In altre parole: occorrerà generare (molta) più energia elettrica, e occorrerà implementare (e talvolta inventare) tecnologie che potranno sopperire all’energia che oggi viene agevolmente fornita da combustibili fossili. Secondo uno scenario realizzato dalla International Energy Agency (IEA) – la principale organizzazione internazionale in ambito energetico – affinché possa essere raggiunto il traguardo della neutralità carbonica al 2050 sarà infatti necessario che già entro il 2030 due terzi dell’approvvigionamento energetico globale provengano da fonti rinnovabili (quali solare, eolico, geotermico, idroelettrico).
A dispetto dei pessimisti, gli ultimi anni offrono in realtà segnali incoraggianti. Sempre la IEA riferisce che, a livello globale, gli incrementi netti di energia rinnovabile sono più che raddoppiati nel corso dell’ultimo decennio, passando dai 110 GW del 2011 ai 290 GW stimati nel 2021 e trainati in gran parte dal fotovoltaico. Di più: il settore è destinato a crescere del 60% di qui al 2026, quando le rinnovabili potrebbero costituire il 95% dell’incremento totale in potenza a livello globale. In breve: il futuro sarà (anche) elettrico. Occorre quindi che nei prossimi anni vengano create e mantenute le condizioni affinché il settore possa crescere non soltanto entro le tempistiche dettate dalla scienza, ma anche in modo economicamente sostenibile.
Lo spazio per crescere è enorme. Negli Stati Uniti, ad esempio, soltanto il 21% della generazione elettrica nel 2021 è provenuta da rinnovabili (fonte US Energy Information Administration, EIA). Si tratta comunque di un aumento vistoso rispetto al decennio precedente (nel 2012 lo stesso dato si assestava al 5%), e un sintomo di un trend evidente: dei 28 GW di nuova capacità di generazione aggiunti negli Stati Uniti nel 2021, il 77% viene infatti da eolico e solare (dati S&P Global). L’Amministrazione Biden ha annunciato l’installazione di 30 GW di eolico offshore entro il 2030, mettendo a disposizione oltre 3 miliardi di dollari per assicurare prestiti a interessi controllati (e annunciando che il giro d’investimenti atteso si collocherebbe intorno ai 12 miliardi di dollari).
La capacità di generazione elettrica dal fotovoltaico nel Paese è passata da 0.34 GW nel 2008 ai circa 100 GW del 2021; associazioni di categoria affermano che il dato potrebbe triplicare nei prossimi quattro anni, purché con gli adeguati accorgimenti normativi. E in tal senso si muove il legislatore americano. Il Congresso ha approvato un importante pacchetto sulle infrastrutture (Infrastructure Investments and Jobs Act) che contiene decine di miliardi di dollari per iniziative in ambito climatico (con un focus, tuttavia, su molecole decarbonizzate più che elettroni), e sta valutando – sebbene con un percorso assai incerto e travagliato – un secondo pacchetto di spesa al cui centro si collocano 555 miliardi per l’energia. Ben 320 di questi sarebbero destinati a incentivi fiscali per rinnovabili sotto forma di crediti d’imposta percepibili dalle aziende interessate a prescindere dall’effettiva passività fiscale (tramite il meccanismo c.d. di direct pay).
In Italia per il momento l’accelerazione procede più lentamente di quanto potrebbe, principalmente a causa di difficoltà autorizzative che determinano una lentezza nella progressione di capacità rinnovabile. Se nel 2013 il totale della capacità di generazione elettrica relativa a impianti fotovoltaici nel Paese si assestava a 18,2 GW, nel 2021 quel dato è salito soltanto a 22,5 GW; nello stesso periodo per l’eolico si è passati da 8,5 GW a 11,3 GW (fonte Terna). Per raggiungere l’obiettivo imposto dal Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC) – cioè che la generazione di energia elettrica dovrà provenire nel 2030 per il 72% da fonti rinnovabili, rispetto all’attuale 40% circa – quei dati dovranno raddoppiare; e per raggiungere gli obiettivi al 2050 (quasi il 100% da fonti rinnovabili), il dato relativo al fotovoltaico dovrà praticamente decuplicare. In questo quadro, il PNRR offrirà opportunità fondamentali: circa 60 miliardi di euro (poco meno di un terzo dell’ammontare totale) saranno destinati a riforme e investimenti in ottica di transizione ecologica. Ventiquattro di questi sono allocati a energia rinnovabile, idrogeno, e mobilità sostenibile, al cui interno 6 miliardi saranno stanziati per incrementare la quota di energia prodotta da fonti di energia rinnovabile.
Molta strada ancora da percorre, dunque. A titolo di esempio, Legambiente ha recentemente presentato una mappa di 20 “luoghi simbolo” dove lo sviluppo di energia rinnovabile è ostacolato da “burocrazia e comitati Nimby (non nel mio giardino, ndr) e Nimto (non durante il mio mandato, ndr)”. Una burocrazia, denuncia sempre Legambiente, “ingarbugliata e farraginosa, […] anche per i blocchi posti da Amministrazioni locali e regionali […] senza dimenticare il ruolo del Ministero della Cultura e delle Sovrintendenze. A mettere [lo sviluppo di rinnovabili] sotto scacco sono normative obsolete, la lentezza nel rilascio delle autorizzazioni, la discrezionalità nelle procedure di Valutazione di impatto ambientale, blocchi da parte delle sovrintendenze, norme regionali disomogenee tra loro a cui si aggiungono contenziosi tra istituzioni.”
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Si prenda il caso della Puglia, dove pochi giorni fa al largo di Taranto è stata posata la prima turbina del primo parco eolico offshore nel Mediterraneo. L’impianto – che sarà composto da 10 turbine per una capacità complessiva di 30 MW: sufficienti, secondo i realizzatori, a soddisfare il fabbisogno annuo energetico di 60,000 persone – vede finalmente la luce dopo un iter burocratico durato 14 anni. Fra i motivi delle lungaggini, l’opposizione da parte di Regione (sic), della sovrintendenza e dell’Amministrazione tarantina, nonostante il parere positivo alla Valutazione di Impatto Ambientale rilasciato dal Ministero dell’Ambiente di concerto con il Ministero per i Beni Culturali già nel 2012 (Decreto di compatibilità ambientale n. 391 del 24/7/2012). Nel resto della regione si calcola che siano ben 396 gli impianti di energia rinnovabili fermi da più anni (fonte Corriere della Sera). Alcuni di questi, come nel caso del parco fotovoltaico di Brindisi, riguardano paradossalmente aree che necessiterebbero di attività di riqualifica ambientale perché Siti d’Interesse Nazionale.
D'altra parte è notizia di questi giorni che si sia dovuto ricorrere al Tar di Lecce per ottenere una sentenza (n. 248 dell’11/2/2022) che consentisse la legittima realizzazione di un impianto di agri-fotovoltaico, che finora era stato negato dalla Regione Puglia con motivazioni che rivelavano la mancata conoscenza dello strumento (e del suo essere rispettoso della legge). La sentenza in oggetto, anzi, evidenzia come il Piano Paesaggistico Territoriale Regionale (PPTR) di riferimento fosse carente proprio in relazione alla differente tipologia di impianto di produzione di energia in questione (appunto l’agri-fotovoltaico, che peraltro è tecnologia successiva rispetto allo stesso PPTR), che non solo non sottrae territorio all'agricoltura (come infondatamente sostenuto), ma anzi ne favorisce lo sviluppo, ecologico, consentendo anche la copertura dei terreni e la protezione delle specie sottostanti.
Governi e legislatori si trovano dunque ad un bivio di fondamentale importanza, con un compito tanto complesso quanto essenziale: creare un ecosistema normativo e regolatorio adeguato a tutti gli obiettivi presi a livello tanto nazionale quanto internazionale. Sono almeno quattro i profili da tenere in considerazione in questo contesto. Primo, sostenere la produzione di rinnovabili con incentivi fiscali finché queste non saranno competitive rispetto a fonti tradizionali. Secondo, snellire le procedure burocratiche per agevolare l’installazione sul territorio dei dispositivi adeguati e necessari. Terzo, assicurarsi che l’offerta di energie rinnovabili proceda di pari passo con la domanda (soprattutto in settori quali industria e mobilità), per evitare di creare energia pulita senza avere, poi, a chi fornirla. Quarto – ma certamente non ultimo – intervenire sulle catene di approvvigionamento per avvicinarle il più possibile al consumatore finale, dal momento che – ad esempio – la stragrande maggioranza di pannelli solari e pale eoliche viene infatti prodotta in Cina.
Sarebbe un errore, comunque, credere che il quadro della transizione inizi e si esaurisca con le rinnovabili. Difficoltà di stoccaggio dell’energia e il bisogno di capacità generativa non intermittente (a maggior ragione in un Paese, come il nostro, a forte trazione industriale) rendono complicato immaginare una transizione trainata esclusivamente da solare ed eolico. Esistono strumenti che potranno (e, nel caso dell’Italia, dovranno) essere impiegati assieme al fotovoltaico e all’eolico per sopperire alla domanda di energia: combustibili fossili a minore impatto emissivo (gas naturale) associati a meccanismi di cattura e stoccaggio del carbonio; biocarburanti; idrogeno; nuove tecnologie (ad esempio, fusione magnetica e nucleare avanzato). Da questo punto di vista, l’Italia è davanti a molti: è quarta in Europa per numero di brevetti in energia pulita (che costituiscono circa l’8% di tutti i brevetti italiani).
Perché tutti questi obiettivi vengano raggiunti sarà quindi fondamentale che politica, istituzioni, ed industria procedano in modo coordinato. La posta in gioco è elevatissima: evitare il surriscaldamento del pianeta, e partecipare ad un mercato – quello degli investimenti in energia pulita – che si stima arriverà a valere complessivamente 4 trilioni l’anno nel 2030, con un impatto sul PIL globale pari allo 0.4% all’anno. Un movimento, quindi, destinato a non essere solamente dettato da imposizioni dall’alto, ma spinto direttamente dagli investitori e dalle fasce produttive della società. Come affermato da Larry Fink, il CEO di BlackRock, nella sua lettera annuale agli AD: “la decarbonizzazione dell’economia [sta] per creare la più grande opportunità di investimento della nostra vita”. E il decennio in corso sarà decisivo.
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N.B. Il contributo dell'autore è a titolo puramente personale, e non riflette le opinioni di Eni SpA o di terzi.